«… il cielo finalmente folgorò, tuonò con folgori e tuoni spaventosissimi, come dovette avvenire per introdursi nell’aria la prima volta un’impressione sì violenta. Quivi pochi giganti, che dovettero esser i più robusti, che erano dispersi per i boschi posti sulle alture dei monti, siccome le fiere più robuste ivi hanno i loro covili, essi, spaventati ed attoniti dal grande effetto di cui non sapevano la cagione, alzarono gli occhi ed avvertirono il cielo. E perché in tal caso la natura della mente umana comporta che ella attribuisca all’effetto la sua natura, (…), e la natura loro era, in tale stato, di uomini tutti robuste forze di corpo, che, urlando, brontolando, spiegavano le loro violentissime passioni; si finsero il cielo esser un gran corpo animato, che per tale aspetto chiamarono Giove, il primo dio delle genti dette “maggiori”, che col fischio dei fulmini e col fragore dei tuoni volesse loro dir qualche cosa; e così incominciarono a celebrare la naturale curiosità, che è figliuola dell’ignoranza e madre della scienza, la qual partorisce, nell’aprire che fa della mente dell’uomo, la meraviglia. La qual natura tuttavia dura ostinata nel volgo, che ove veggano o una qualche cometa o parelio o altra stravagante cosa in natura, e particolarmente nell’aspetto del cielo, subito danno nella curiosità e, tutti ansiosi nella ricerca, domandano che quella tal cosa voglia significare, come se n’è data una degnità; ed ove ammirano gli stupendi effetti della calamita col ferro, in questa stessa età di menti più scorte e benanco erudite dalle filosofie, escono colà: che la calamita abbia una simpatia occulta col ferro, e sì fanno di tutta la natura un vasto corpo animato che senta passioni.»
Giambattista Vico, Scienza nuova.