Il sottotitolo, “Scritto politico postumo”, aggiunge un ulteriore motivo di interesse a questo ultimo testo (volutamente “postumo”) di Mario Tronti, uno dei maggiori filosofi del Novecento e padre del marxismo operaista italiano: l’essere un lascito teorico e politico del lavoro di filosofo. E della passione politica e del rigore filosofico di Tronti a poco più di un anno dalla sua scomparsa, questa riflessione sulla storia che è anche una sua riflessione sulla sua vicenda di pensatori mantiene, la passione, l’ironia e il disincanto di sempre.
«Apprendere il proprio tempo col pensiero – riconoscibile citazione hegeliana – è già fare politica. È un prender parte al destino del mondo umano, così come ce l’hai di fronte, fuori di te e contro di te. Per conoscerlo, certo. Ma la conoscenza non è neutra. Chi semplicemente vuole conoscere ha già scelto da che parte stare. Che ne sia o no consapevole, ha già firmato la pace con il proprio tempo (…). Che fare della storia del tuo tempo, mentre la conosci, nelle sue forme di mondo, nelle sue forme di vita? Questa, per me, è la domanda. Conosco tre risposte: conservare, migliorare, rovesciare. Troppo semplice? Abbiamo, oggi, il compito etico-politico di trovare parole facili per pensieri difficili. Parlare ai più sapendo che ti ascolteranno in pochi. Perché non è l’ascolto dei pochi che ti rassicura, è la condizione dei molti che ti inquieta. Scrivi non per chi ti legge, ma per quelli che non possono leggerti. Il pensiero è a loro che pensa (…)
Lo storico racconta la storia. Il filosofo la interpreta. Il politico la pensa. Pensare la storia non è raccontare e non è interpretare. È conoscere per trasformare, come imparammo una volta per tutte in gioventù e fino in vecchiaia non abbiamo fatto altro che cercare ancora di approfondire, contingenza dopo contingenza. Il politico che non pensa la storia non fa politica. Questo vale per tutti. Il grande conservatore lo fa e, dobbiamo dire, gli riesce abbastanza bene. Il riformista lo ha fatto in lontane epoche passate, ma è da tempo, da molto tempo, che ha disimparato a farlo. Il rivoluzionario, riconosciamolo, è quello che rischia di più. Può pensare la storia ideologicamente o realisticamente. Deve scegliere: sapendo che nel primo caso produce inevitabilmente illusioni di rovesciamento, e che nel secondo caso, alternativamente, può provocare guasti irreparabili oppure può accontentarsi di soluzioni al ribasso. L’unico rimedio è andare a scuola del nemico se si vuole veramente sconfiggerlo. La grande conservazione, delle cose come stanno, ha una pratica di lunga durata, sociale e istituzionale. Possederla è indispensabile, per capire le leggi di movimento dei processi. Le sue fondamenta antropologiche toccano la carne viva della storia. Ancora più indispensabile è frequentarla, armato di un punto di vista sovversivo, inattaccabile, incatturabile, autonomo, in una parola, libero.
Il realismo politico è una cosa seria. Va praticato a un livello alto di pensiero e di azione. Non è roba da faccendieri, da mestatori, da manovrieri… Realismo politico è lucida analisi dei rapporti di forza in campo, giudizio disincantato sugli interessi in conflitto, calcolo delle possibilità di successo di un’iniziativa, a difesa o all’attacco. Suo luogo di elezione è lo stato di eccezione, dove c’è spinta oggettiva a salire di livello. Ma vale anche per lo stato normale, dove è necessaria una sapienza soggettiva per non rimanere chiusi dentro una situazione bloccata. Può essere dunque sia la presa del Palazzo d’Inverno in uno spazio e tempo che improvvisamente la rendono possibile, sia la cura attenta di un necessario sforzo di lunga durata per far maturare gradualmente le condizioni di un salto di sistema.»
Mario Tronti, Il proprio tempo appreso col pensiero.