È questa la traduzione del Primo stasimo della tragedia di Sofocle resa di recente da Massimo Cacciari. A parlare è il Coro, che propone questa immagine dell’uomo e dei suoi progressi subito prima di intravvedere, turbato, Antigone, “la sventurata figlia di Edipo” che ha appena dato sepoltura al fratello Polinice, contravvenendo alla legge dello zio Creonte, re di Tebe, che aveva decretato che doveva essere lasciato insepolto, alla mercé di cani ed avvoltoi, chi aveva dato l’assalto alla città.
<<Molte potenze sono tremende ma nessuna lo è piú dell’uomo. È lui che oltre il mare canuto procede nella tempesta invernale attraverso i flutti che gli si frangono intorno. È lui che anche la dea suprema tra tutti gli dèi, Gaia, inconsumabile, instancabile, rivoltando violenta anno per anno con gli aratri tirati dalla stirpe equina.
È lui che cattura con attorte reti gli uccelli dalla mente alata e le fiere selvagge e gli animali del mare. È lui, l’uomo, capace di pensiero, che ha il potere sulle bestie dei campi e su quelle che vagano sui monti; è lui che aggioga il cavallo crinito e l’infaticabile toro.
È lui che la parola e il pensiero simile al vento ha imparato e l’impulso che porta alla legge e a fuggire gli strali tremendi dell’inabitabile gelo sotto l’etere aperto. Ovunque s’apre la strada, in nulla s’arresta. Così affronta il futuro. Da Ade solo non ha escogitato scampo, per quanti rimedi abbia inventato a inguaribili mali.
Oltre ogni speranza e ogni attesa, conosce, fabbrica, inventa, a volte volgendosi al male, altre al bene. Allorché s’accorda alle leggi della sua terra e alla giustizia giurata degli dèi siede in alto nella città; ma se si macchia di azioni malvagie e sfrontata audacia, della città neppure fa parte. Mai gli sarò commensale, mai avrò animo uguale con chi così agisce.>>
Antigone, vv. 332-375.