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LE CITAZIONI: Severini, quel 12 dicembre…

by Ernesto Scelza
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Il 12 dicembre 1969, una bomba nella “Banca nazionale dell’agricoltura” di Piazza Fontana a Milano fa 17 morti e 88 feriti. Nel commemorare l’anniversario il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella la definisce “Una ferita nella vita e nella coscienza della nostra comunità, uno squarcio nella storia nazionale”, mentre “l’impronta neofascista della strage è emersa con evidenza nel percorso giudiziario, anche se deviazioni e colpevoli ritardi hanno impedito che i responsabili venissero chiamati a rispondere dei loro misfatti”. Al contrario le indagini, da subito, seguono la “pista anarchica”, accusando della strage Pietro Valpreda.  Pino Pinelli, ferroviere anarchico milanese, nel corso di un interrogatorio precipita dai locali della Questura milanese e muore. La moglie, Licia, per cinquant’anni, non ha smesso di chiedere verità su quella morte e giustizia. È venuta a mancare lo scorso 11 novembre.

 

«Il dolore ha accompagnato Licia Pinelli e le sue figlie nella continua ricerca della verità: a un certo punto ha passato il testimone di questa ricerca alle figlie Claudia e Silvia. Gli italiani hanno immaginato chissà quante volte quello che è successo in quella stanza della Questura milanese la notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969. Secondo noi, l’ultima parola spetta a chi conosceva Pino Pinelli meglio di tutti, la signora Licia, che ha scritto, commentando la sentenza D’Ambrosio (Gerardo D’Ambrosio, che nella sentenza del Tribunale di Milano del 27 ottobre 1975 riconduceva ad un “malore attivo” la morte del ferroviere anarchico, ndr):
“Io mi vedo Pino (…) che si alza, l’interrogatorio è finito, sa di essere praticamente libero, sta per tornare a casa, sarà stato tutto ringalluzzito. Sicuramente parla, discute, avrà detto anche qualche battuta cattiva, con il carattere che aveva. Ecco, è qui che succede qualcosa. Probabilmente un malore (…). Ma forse qualcos’altro. Si può immaginare di tutto. Potrei immaginare per esempio che Pino abbia detto una battuta ironica, sfottente, ai poliziotti, e che uno di loro si sia arrabbiato e – proprio davanti alla finestra – abbia cercato di dargli uno schiaffo, un colpo…”
Un finale che, sempre secondo Licia, spiegherebbe “quel volo di Pino senza un grido, senza un lamento”, la confusione nella stanza avvertita da Valitutti e il fatto che nessuno dei presenti nella stanza, con l’eccezione del carabiniere Lograno, sia corso in cortile a vedere cosa era successo a Pinelli:
“E si spiegherebbe anche perché inventano una incredibile versione, anzi diverse versioni piene di bugie invece di dire semplicemente che un fermato ha avuto un malore”.
La scena dell’ospedale è stata puntualmente descritta da Camilla Cederna, chiamata dai colleghi in una notte in cui non riesce a dormire dopo aver assistito per cinque ore ai funerali in Duomo delle vittime di Piazza Fontana e aver scritto uno degli articoli “più difficili di una lunga carriera”. Camilla arriva al Fatebenefratelli con i colleghi Stajano e Pansa che “hanno la faccia e i modi” di quei giorni drammatici e convulsi, “gesti frettolosi, rabbia e dolore negli occhi”. È lei che, dopo aver visto poliziotti in borghese e “i piedi di un uomo disteso su un lettino”, parla con il medico “capoturno”, Nazzareno Fiorenzano, che le dice: “Niente più attività cardiaca apprezzabile, polso assente, lesioni addominali paurose, una serie di tagli alla testa. Abbiamo tentato di tutto, ma non c’è niente da fare, durerà poco”. Ma il medico non sa chi sia quell’uomo, accompagnato all’ospedale “da una scorta imponente” della Questura, “dirigenti in testa e anche carabinieri, perché a lui, nonostante l’avesse chiesto più d’una volta, non avevano voluto rispondere”. “È un anarchico, gli dico, si chiama Giuseppe Pinelli”. Camilla l’ha saputo un minuto prima e, una volta lasciato l’ospedale, si reca con i colleghi nell’appartamento di via Preneste da Licia, già raggiunta da due giornalisti del “Corriere”.
Dieci anni fa, in un’intervista pubblicata su “l’Espresso”, Licia così ha risposto a Chiara Valentini circa la domanda se Pino avesse detto qualcosa prima di morire:
“Quel che so è che non hanno lasciato entrare nella stanza mia suocera, che era corsa in ospedale mentre io portavo le bambine a casa di amici. Finché Pino non è morto, vicino al suo letto ci sono stati i poliziotti. (…) Solo quando tutto è finito hanno aperto la porta”.»
Marco Severini, Licia.