“Canto d’amore per una città mitica, Beirut”: così è presentato “Il tumulto”, ultimo romanzo di Sélim Nassib, scrittore nato e cresciuto a Beirut in una famiglia ebraica di origine siriana. Il protagonista, Yussef, assiste da giornalista, inorridito, all’invasione israeliana del Libano del 1982, che portò alla strage dei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila.
Per amore di Beirut.
«Al telefono da Beirut, la voce di Rocco mi giunge frammentata, irreale.
“Non so da dove cominciare, Yussef. Un massacro abominevole…”.
Non oso dire niente, la minima parola potrebbe ferirlo.
“Appena la vostra nave è partita hanno ammazzato Bashir Gemayel…” (…) “Ero da Munir e Anne quando è arrivata la notizia. Ci siamo guardati pieni di un senso di trionfo e al tempo stesso terribilmente spaventati. Gemayel stava per firmare la pace con gli israeliani, sarebbe stato il “loro” presidente della Repubblica libanese. La sua uccisione mandava all’aria all’ultimo momento la loro brillante vittoria… Non saremmo certo stati noi a piangere la sua morte. Sono rimasto a casa di Munir. La mattina dopo abbiamo visto dal balcone i carri armati israeliani, i soldati con l’elmetto e i fucili puntati in tutte le direzioni nonostante gli accordi stipulati.” (…) “Eravamo sicuri che sarebbe successo qualcosa di terrificante, ma cosa? Dove sarebbero andati? Dove avrebbero dato libero sfogo all’istinto omicida bestiale da cui erano pervasi? La risposta non ha tardato ad arrivare, le orde armate si sono dirette in massa verso Sabra e Shatila, i campi profughi palestinesi alla periferia di Beirut… di cui l’esercito israeliano aveva reso libero l’accesso”.
Stavolta il silenzio dura più dei precedenti. Capisco. Lo sento raccogliere le forze, perché il seguito è palesemente difficile da raccontare.
“Sai, Yussef, è qualcosa che va oltre tutti gli orrori che abbiamo visto. Sembrava… non lo so… un’orgia di sangue. Nel campo erano rimaste solo un po’ di donne, vecchi e bambini. È stato… il massacro degli innocenti… Per tutta una notte, un giorno e un’altra notte i miliziani falangisti hanno avuto mano libera… Alla luce dei razzi illuminanti lanciati con regolarità dagli israeliani hanno massacrato tutti quelli che hanno potuto”.
Nuovo silenzio, interminabile. Stavolta sono io a romperlo.
“Volevo dirti, hanno telefonato dal giornale per chiedermi di prendere l’aereo e tornare a Beirut… Mi sono rifiutato”.
“Non mi stupisce da parte tua”.
L’ha detto come rispedendomi una pallina da ping-pong, ma subito si riprende.
“In fondo hai ragione… I palestinesi hanno perso perché sono stati costretti ad andare di nuovo in esilio, gli israeliani hanno perso perché il loro cavallo si è fatto ammazzare e subiscono una tremenda sconfitta morale, i libanesi hanno perso perché niente è stato risolto e continueranno a farsi fuori fra loro. Qui non c’è più posto per noi. Tutte le comunità ebraiche del mondo arabo hanno perso le proprie radici per colpa di Israele… Restavamo solo noi, gli ultimi dei mohicani… gli ultimi ad andarsene”.
“Che pensi di fare?”.
“Te l’ho detto. La guerra è persa per te, per me, per tutti. Ma resterò a Beirut. Come individuo. Non ho più la forza di andare a fare finta da un’altra parte. Tu a quanto pare sì. Riesci ancora ad andare nel mondo e fare del tuo meglio per viverci. Ricordi il detto che mi hai citato un giorno? “Beirut ti seguirà ovunque fino all’ultimo respiro… Sarà lei a chiuderti gli occhi per l’ultima volta”. È un detto che sembra fatto apposta per me. Tu, ebreo errante, vai per la tua strada!”.»
Sèlim Nassib. Il tumulto.