“Virtù giuridica, morale e politica, il coraggio di praticarla”: così Francesca Rigotti, già docente nell’Università di Göttingen e nell’Università della Svizzera italiana, sintetizza il tema della sua indagine sulla “Clemenza”. “Chi esercita o dovrebbe esercitare la clemenza: il giudice misericordioso, il politico mite, il padre indulgente, l’insegnante comprensivo? Né pietà né perdono, la clemenza è virtù “gerarchica” per eccellenza… disposizione benevola del superiore verso l’inferiore”.
«L’esortazione a essere clementi è molto diversa dal generico “siate buoni” e si avvicina di più a un “siate comprensivi e perdonate”. Ovvero al significato primario di clemenza, che non nega l’applicazione della giustizia ma la spinge oltre, quasi un’eccedenza: emettete un giudizio giusto, una valutazione secondo equità e poi però fate intervenire almeno un pizzico di clemenza nei confronti del reo. Un pizzico di clemenza? Che cos’è la clemenza?
È caratteristica propria della clemenza – come lo è del perdono e della misericordia – far sentire tutti meglio, carnefici, vittime e loro congiunti? La clemenza però non è né l’uno né l’altra. E che cos’è allora? Qual è la sua condizione, quale la sua ontologia, quali ne sono i motivi e l’utilità? Chi esercita o dovrebbe esercitare la clemenza, il giudice mite, il padre indulgente, l’insegnante benevolo, il sovrano misericordioso, il politico populista?
In effetti la clemenza, virtù gerarchica per eccellenza, è la disposizione benevola del superiore verso l’inferiore; è virtù esterna, pubblica, non privata e interna come la bontà e l’umiltà. È virtù dei potenti verso i soggetti, talora richiesta alla giustizia, talora dalla giustizia concessa, quando con la grazia risparmia al condannato la vita o anni di pena.
Oggi clemenza è un concetto dotato di pregnanza quasi esclusivamente giuridica: in tale ambito il termine definisce, più che una pratica specifica, un principio di mitigazione della retribuzione (della pena, ndr) che raccoglie e assume sotto di sé alcuni istituti particolari, gli “istituti di clemenza o clemenziali” appunto, quindi amnistia, prescrizione, grazia (…).
Può lo scorrere del tempo essere collegato alla clemenza? Sì certo: il tempo, il passato, il ricordo, la memoria degli eventi occorsi nel tempo, oppure il loro contrario, la cancellazione e l’oblio sono centrali nel concetto di clemenza, nel momento in cui vengono a far parte dei suoi istituti l’amnistia e la prescrizione, oltre alla grazia, di cui tratteremo in seguito.
Il nome del provvedimento dell’amnistia, in particolare, è legato al tempo in quanto è un invito a non ricordare il passato, a obliare la memoria dei fatti: amnistia dal greco amnestía, da amnestéo, dimenticare, cadere nell’oblio, uscire (alfa privativo) dalla memoria, dal ricordo (mnéme)… Anche la prescrizione permette di seppellire la memoria dei fatti grazie allo scorrere del tempo, anzi nasce proprio, tardivamente, dall’associazione del perdono con il tempo. La prescrizione è un perdono in anticipo, scritto prima, sconosciuto in un primo tempo al diritto penale del mondo romano che poi si affrettò a incorporarlo, e che prese lentamente piede anche nel pensiero cristiano medievale.
L’idea è quella di una limitazione temporale nella perseguibilità dei crimini, che si appoggia anche sulla necessità di mettere fine all’incertezza e di impedire la moltiplicazione all’infinito dei processi. La prescrizione, lo scrivere prima, è il perdono prestabilito che l’autore del crimine conosce in anticipo.»
Francesca Rigotti, Clemenza.