Sto leggendo le tue poesie
e un enorme edificio sgangherato compare, la luce di centinaia di candele
si riversa sulla neve. All’interno al lungo tavolo bolscevichi massicci
come idranti forgiano le loro discussioni con giovani Dostoevskij
e socialisti provenienti da una ventina di paesi.
La pelle nero blu del cantante tuareg brilla con le costellazioni
sahariane mentre lui canta nella lingua del vento,
quella che sua madre gli ha insegnato, quella proibita a scuola.
Un gruppo di poeti solleva i bicchieri di grappa e canta con lui.
All’estremità del tavolo, gli intellettuali assaporano con gusto le sfumature
i riferimenti nascosti e i temi sottesi, qualcuno si lecca le dita.
La donna sudamericana con la voce di un treno che geme
attraversando le piccole città degli scomparsi si piega verso
il sikh e le sue sillabe di Guru Nanak.
La sciamana siberiana crea nel suo canto una maschera di corda
annodata attraverso la quale noi vediamo la processione di animali
sui vasti territori del nord. Una danza di corteggiamento e mele comincia all’alba.
Tre giovani con una stridula colonna sonora gridano simultanee
storie personali di orrori di guerra.
C’è qualcosa nelle caverne del cuore in cui tutte le canzoni si incontrano,
Bella Ciao, l’Internazionale, il riff jazz e la ninnananna
il dramma di mani sopra un tavolo fra i sordi e quelli che cantano.
La chiave è nel diamante della porta, aprite, sono io.
Nella poesia che tiene la porta socchiusa,
ah, stavamo aspettando.
Dall’altra parte del tavolo (traduzione di Raffaella Marzano).