È un racconto breve del Premio Nobel giapponese: in un villaggio affamato dal secondo conflitto mondiale, un aereo nemico si schianta al suolo e un soldato americano di colore è fatto prigioniero. Confinato in uno scantinato, diventa l’idolo dei bambini, il loro animale domestico. Fino a che la logica della guerra non ne infrange l’innocenza con la violenza della morte.
«Un caldo pomeriggio, Labbroleporino propose di portare il soldato negro alla sorgente del pozzo comune (dove i bambini facevano il bagno, ndr) e noi, sorpresi di non averci pensato prima, salimmo le scale trascinando il negro per le mani sporche e appiccicose. I bambini che erano raccolti nella piazza ci vennero in torno con urla di gioia e noi corremmo giù per la strada sassosa arsa dal sole…
Poi, improvvisamente, scoprimmo che il soldato negro possedeva un sesso magnifico, eroico, incredibilmente bello. Radunati intorno a lui, fianco nudo contro fianco nudo, lo burlavamo e il soldato negro, stringendosi il sesso e urlando, assunse una posizione di sfida, come un caprone pronto alla lotta. Noi ridemmo fino alle lacrime e spruzzammo il suo sesso di acqua. Allora, Labbroleporino corse via nudo com’era e, quando tornò portandosi dietro il grosso caprone dal cortile del negozio, applaudimmo alla sua idea. Il soldato negro aprì la sua rosea bocca e gridò; poi danzò fuori dalla fonte e andò a fronteggiare la capra che belava spaventata.
Mentre noi ridevamo come matti, Labbroleporino spinse con forza la testa della capra verso il basso e il soldato negro lottò disperatamente, il suo nero e vigoroso sesso che brillava al sole, ma non funzionò come doveva con il caprone. Ridemmo fino a che le gambe non ci ressero più e cademmo a terra esausti, come se la tristezza si fosse insinuata nelle nostre morbide teste. Per noi il soldato nero era come un raro e splendido animale domestico, un animale di talento. Come posso esprimere il bene che gli volevamo, il sole che brillava sulla nostra pelle bagnata e pesante in quel lontano pomeriggio di estate, l’ombra spessa sull’acciottolato, l’odore dei bambini e del soldato negro, le grida di gioia, il senso di appagamento, il ritmo di tutto questo.
A noi sembrava che quell’estate che ci aveva mostrato un muscolo tanto vigoroso e splendente, quell’estate che ci inzuppava con un pesante olio nero e dispensava felicità come un pozzo di petrolio improvvisamente zampillante, non sarebbe finita mai, avrebbe continuato per sempre.
(…) Inspirai profondamente e rimasi in silenzio. La guerra, quel lungo, sanguinoso combattimento su vasta scala, doveva continuare. La guerra che- come un’alluvione che travolge greggi di capre e prati rasati in un paese lontano- nessuno si sarebbe mai aspettato arrivasse fin nel nostro villaggio… “Ma tra poco finirà!”, disse Shoki gravemente…»
Kenzaburō Ōe, L’animale d’allevamento.