Il breve trattato “Su verità e menzogna in senso extramorale”, nasce nell’estate del 1873 come completamento o introduzione a “La filosofia nell’epoca tragica dei Greci” e rende espliciti “gli assunti teorici su cui la sua ricostruzione del pensiero dei preplatonici riposa. Nietzsche prende le mosse dalla considerazione che l’uomo non ha accesso alcuno all’essenza delle cose, e che ogni sua rappresentazione mentale della realtà è largamente soggettiva e arbitraria”. È già avvenuta la rottura con il mondo accademico e inizia l’amicizia con Wagner. Come rileva Roberto Calasso: “L’indagine accanita di Nietzsche non vuole dubbi su questo punto: ogni forma della rappresentazione è una necessaria falsificazione, che riduce immensamente il reale ma si presenta in noi come se lo comprendesse nella sua interezza”.
«È degno di nota che tutto ciò sia prodotto dall’intelletto, il quale è concesso – unicamente come aiuto – agli esseri più sfortunati, più delicati e più transitori allo scopo di trattenerli per un minuto nell’esistenza, onde essi altrimenti, senza quell’aggiunta, avrebbero ogni motivo di andarsene tanto rapidamente quanto il figlio di Lessing (che morì a pochi giorni dalla nascita, ndr). Quell’alterigia connessa col conoscere e col sentire, sospesa come nebbia accecante dinanzi agli occhi e ai sensi degli uomini, li inganna dunque sul valore dell’esistenza, portando in sé la più lusinghevole valutazione riguardo al conoscere. Il suo effetto più universale è l’inganno, ma anche gli effetti più particolari portano in sé qualcosa del medesimo carattere.
L’intelletto, come mezzo per conservare l’individuo, spiega le sue forze principali nella finzione. Questa infatti è il mezzo con cui gli individui più deboli e meno robusti si conservano, in quanto a essi è preclusa una lotta per l’esistenza da condursi con le corna o con gli aspri morsi degli animali feroci. Nell’uomo quest’arte della finzione raggiunge il suo culmine: qui l’illudere, l’adulare, il mentire e l’ingannare, il parlar male di qualcuno in sua assenza, il rappresentare, il vivere in uno splendore preso a prestito, il mascherarsi, le convenzioni che nascondono, il far la commedia dinanzi agli altri e a se stessi, in breve il continuo svolazzare attorno alla fiamma della vanità costituisce a tal punto la regola e la legge, che nulla, si può dire, è più incomprensibile del fatto che fra gli uomini possa sorgere un impulso onesto e puro verso la verità. Essi sono profondamente immersi in illusioni e immagini di sogno, il loro occhio scivola sulla superficie delle cose, vedendo “forme”, la loro sensibilità non conduce mai alla verità, ma si accontenta di ricevere stimoli e, per così dire, di accarezzare con un giuoco tattile il dorso delle cose. Oltre a ciò, di notte l’uomo si lascia ingannare nel sogno, per tutta la vita, senza che il suo sentimento morale cerchi mai di impedire ciò; devono invece esistere uomini che con la forza di volontà hanno eliminato il russare. In senso proprio, che cosa sa l’uomo su sé stesso? Forse che, una volta tanto, egli sarebbe capace di percepire compiutamente sé stesso, quasi si trovasse posto in una vetrina illuminata? Forse che la natura non gli nasconde quasi tutto, persino riguardo al suo corpo, per confinarlo e rinchiuderlo in un’orgogliosa e fantasmagorica coscienza, lontano dall’intreccio delle sue viscere, dal rapido flusso del suo sangue, dai complicati fremiti delle sue fibre? La natura ha gettato via la chiave, e guai alla fatale curiosità che un giorno riesca a guardare attraverso una fessura dalla cella della coscienza, in fuori e in basso, e abbia allora il presentimento che l’uomo, nell’indifferenza della sua ignoranza, sta sospeso nei suoi sogni su qualcosa di spietato, avido, insaziabile, atroce e, per così dire, sul dorso di una tigre. In una tale costellazione, da quale parte del mondo sorgerà mai l’impulso verso la verità?»
Friedrich Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale (trad. Giorgio Colli).