Il 23 novembre 1980, alle 19 e 23, un terremoto di magnitudo 6,9 – per 90, interminabili secondi – devastò l’Irpinia tra il Salernitano, l’Avellinese e il Potentino, cancellando interi paesi e comunità, e facendo danni e morti anche a Napoli e nelle città. Alla fine i morti saranno quasi 3000 e centinaia di migliaia gli sfollati. Alberto Moravia si trasportò in elicottero verso l’epicentro di Teora, Castelnuovo di Conza e Sant’Angelo dei Lombardi per raccontare il disastro in un reportage per “L’Espresso”, pubblicato il 7 dicembre: “Ho visto morire il sud”.
«Guardo e cerco di capire, di riflettere; e ad un tratto la verità brutale ristabilisce il rapporto tra me e la realtà. Quei nidi di vespe sfondati sono case, abitazioni, o meglio lo erano; adesso sono macerie e sotto quelle macerie stanno sepolti gli abitanti, altrettanto invisibili che i morti di quel cimitero che vedo laggiù, con il suo recinto, e le sue file di tombe, i suoi cipressi. Soltanto, un paese non è un cimitero; non può esserlo che in una o due terribili occasioni; e così comincia ad albeggiarmi nella mente l’orrore che vado scoprendo e che ancora mi aspetta.
L’elicottero descrive più giri intorno San Mango, il paese-cimitero; quindi punta al di sopra delle montagne verso altri disastri. Trasvoliamo alcune catene montuose, altrettante valli; ecco un abitato sparso su un monte articolato in diverse vette. Scendiamo in una cava abbandonata; appena siamo saltati a terra, ecco che ci viene incontro in forma di gruppo di uomini con la scoppola e di donne vestite di nero il coro di questa tragedia paesana. “Qui nessuno ci aiuta, siamo abbandonati da Dio e dagli uomini, i Tedeschi, che sono Tedeschi, sono arrivati prima dei Salernitani; sulle strade fermano le ruspe per lasciar passare le macchine delle autorità; ci vogliono delle gru per tirar fuori i sepolti vivi ed invece ci mandano dei centri di rianimazione che per ora non servono a niente; in quei bar laggiù giocavano a biliardo, a carte, bevevano, chiacchieravano: tutti morti, settanta, ottanta; qui eravamo seimila, adesso siamo duemilacinquecento: gli altri o morti o sotterrati vivi; le quattro chiese: crollate; il municipio: crollato; la farmacia: crollata’”. E il sindaco dov’è? “Il Sindaco è morto”. (…) Adesso si vede chi ha rubato. L’ospedale nuovo, inaugurato l’altr’anno, è crollato, i malati sono morti gli infermieri sono morti, i medici sono morti. E perché sono morti? Perché c’è stato chi ha rubato sul cemento come il negoziante disonesto ruba sul peso”. Nel discorso del coro, “morte” e “furto” vanno oramai insieme, come in altre famose coppie di parole “morte” va insieme con “amore” oppure “passione” va insieme con “morte”; e ci vorranno molti sforzi e molta buona volontà per dividere di nuovo la parola terribile dalla sordida. Siamo a Sant’Angelo dei Lombardi… Ci chiniamo a raccogliere sulle macerie un cassetto volato via da un comò è ancora pieno di fotografie di gente sorridente; notiamo automobili schiacciate, pestate, ridotte a fisarmonica e sgangherate; seguiamo per un po’ la ricerca dei morti e dei vivi fatta coi cani-lupo tedeschi guidati da soccorritori con rauche voci tedesche; finalmente ci fermiamo di fronte ad una rientranza del monte di macerie, in fondo alla quale una ruspa avanza e indietreggia accanendosi, tra il polverone e la folla, ad addentare il magma della rovina. La solita voce del coro spiega, dimessa, familiare e spietata. “Con la pala sfilata della ruspa c’è chi dice che hanno tagliato in due già due sotterrati che forse erano vivi. Là dentro i morti, con rispetto parlando, sono come i canditi nel panettone. Guardate, guardate, eccone uno”. Sì, effettivamente, i morti stanno nella maceria come un orrendo condimento a una pasta dolce. Eccone uno: tra il polverone e la folla, distinguiamo a metà altezza una testa, mezza spalla, un braccio tutto pesto di un colore grigio-ghisa, che sporgono immobili e rigidi dal magma polveroso. Intanto il coro continua. “Ce ne sono tanti sotto terra che sono vivi come noi qui fuori, ma ancora per poco. Si lamentano, chiamano e poi, non dicono più niente alla fine”. I sepolti vivi! (…) Eccoci a Lioni, dove atterriamo nel campo sportivo. Prima di tutto c’è una grande casa di sei piani, con tanti balconi, apparentemente intatta e abitabile. Ma dalle finestre si affacciano non già figure di donne incuriosite ma mucchi inerti di calcinacci (…).
C’è un silenzio profondo, di specie quasi religiosa, come una chiesa durante l’elevazione. Che sta succedendo? Stanno cercando di estrarre da una maceria un bambino che dovrebbe essere ancora vivo; la madre, viva, è stata salvata ora è poco. Guardo e vedo che pur nel disordine del disastro c’è una specie di ordine prodotto dalla circostanza. In prima fila ci sono coloro che si limitano a guardare. In seconda fila ci sono i soccorritori, quali in uniforme quali in camice bianco d’infermiere che aspettano di intervenire; in terza fila, nel punto in cui si scava per salvare il bambino, ci sono i congiunti e coloro che scavano. La casa in cui sta chiuso il bambino offre un esempio tipico di crollo attuale: un tetto intatto, tutto di cemento è piombato sulle macerie di tre piani sottostanti e distrutti, così da appoggiare praticamente quasi sul suolo. Tra questo tetto e il mucchio delle macerie cioè tra un blocco e l’altro di cemento, si sono formate delle cavità e il bambino sta in una di queste. I soldati, gli inservienti, i pompieri tirano fuori e gettano via alla rinfusa, chini e quasi carponi, libri delle elementari, bambole, cuscini, seggiole, mattarelli di maiolica, cocci, stracci; ci si aspetta che da un momento all’altro, invece di suppellettili fracassate, estraggano il bambino, vivo e intatto, intanto un lupo poliziotto dei tedeschi entra ed esce inquieto e instancabile dal buco delle macerie; una voce di donna ripete a intervalli, con accorata ansietà: “Diego, Diego, Diego”; un’altra voce di donna grida qualche cosa in cui si alternano le parole “vivo” e “morto”…»
Alberto Moravia, “Ho visto morire il sud”.