Alberto Moravia, uno dei maggiori intellettuali del Novecento, scrive dal 1982 al 1986 una serie di articoli per alcune riviste italiane, poi raccolti in “L’inverno nucleare”: “testimonianza di un’intera stagione moraviana”, secondo la curatrice Alessandra Grandelis. Nella “Lettera da Hiroshima”, indirizzata ad ognuno di noi e che apre il volume, Moravia si chiede “se l’atomica sia il capolavoro, l’opera conclusiva e necessaria dell’ultima civiltà terrestre o se sia possibile ritrovare all’interno della coscienza di specie la forza vitale che se la lasci indietro riducendola a un errore” (Carola Cusani).
«Carissimo, eccomi ad Hiroshima ed ecco l’ultima novità: non sono più quel tale individuo a nome Alberto Moravia, non sono più italiano, europeo, ma soltanto membro della specie. E per giunta membro di una specie destinata, a quanto pare, ad estinguersi al più presto.
Questa verità mi è folgorata in mente mentre mi chinavo, riverente, per deporre un mazzo di fiori davanti al cenotafio delle duecentomila vittime della bomba atomica (…).
Adesso permettimi di fare una citazione. Schopenhauer, a proposito del fatto strano e contraddittorio che gli uomini non credono alla propria morte e infatti non ci pensano mai e così, praticamente, si considerano immortali, fa il seguente ragionamento: “Contro la poderosa voce della natura la riflessione può ben poco, anche nell’uomo, come nell’animale che non pensa, prevale come durevole stato quella certezza proveniente dalla più intima coscienza che lui è natura, è il mondo stesso; per la quale certezza, il pensiero della morte, sicura e mai lontana, non inquieta visibilmente nessun uomo, e ciascuno vive come se dovesse vivere in eterno.” E poco prima, aveva detto: “Non l’individuo ma la specie sola importa alla natura, la quale per la conservazione della specie si affatica con ogni sforzo, provvedendo con larga prodigalità mediante la smisurata sovrabbondanza dei germi e la grande forza della fecondità.” (…)
E invece non è così, non sarà così. Alla fine non ci sarà più né la natura di Schopenhauer né il Dio di San Giovanni; ma soltanto un sasso annerito e bruciato condannato a girare per l’eternità nel vuoto spazio cosmico. Un sasso morto e inerte simile a quella luna che ho visto a Houston in occasione del lancio dell’Apollo. Sì, un sasso, in cui si sono susseguite per secoli tante civiltà, tante culture, tanti popoli la cui storia, adesso, sta per finire in una fiammata, come voleva la profezia cristiana, ma in una maniera e per motivi che non possiamo non sentire mostruosamente sproporzionati e casuali.»
Alberto Moravia, Lettera da Hiroshima.