Alberto Moravia, pochi giorni dopo la scomparsa di Charlie Chaplin, scrive sulle colonne de “L’Espresso” un epitaffio che è una indagine dei rapporti complessi che legano l’artista con il suo Charlot. Solo qualche anno prima aveva scritto de “Il grande dittatore”: “Visto oggi, Chaplin perde ogni carattere simbolico, ridiventa se stesso, vale a dire un uomo di buona volontà le cui parole sincere e commoventi contro la guerra e la dittatura, a favore di un mondo “nuovo e pulito” echeggiano in un’atmosfera di nuovo guerresca e inquinata dalla realpolitik e dalle ideologie di destra”.
«La grande novità del personaggio di Charlot era che esso non veniva dalla civiltà contadina e mediterranea come, per esempio, Pulcinella; ma dalla civiltà industriale del nord. In qualche modo, il clown Charlot riempiva un vuoto: si contrapponeva sullo schermo al suo fratello gemello, il capitalista con la tuba, il panciotto bianco, la marsina, il diamante al dito mignolo.
Per mettere in atto una operazione così complessa, ci voleva un uomo come Chaplin che aveva avuto un’infanzia alla maniera di Oliver Twist, con un padre alcolizzato e una madre degente all’ospedale, che era salito molto presto sulle tavole del palcoscenico, che aveva intuito la carica di masochistica e indomabile ribellione che si nascondeva sotto i lazzi, le marachelle e gli scherzi dei buffoni più infimi dei teatri di varietà (…). All’origine di Charlot c’è un’antica ferita culturale-sociale che non si rimarginerà mai del tutto. Non ci sono soltanto i clown e le masse urbane delle grandi città industriali; c’è anche l’adolescente ebreo col suo senso di frustrazione e di rivolta, per forza di cose escluso e diverso.
(…) La fine di Chaplin fa pensare al famoso gatto dello Cheshire in “Alice nel paese delle meraviglie”, che svaniva in tutto e per tutto salvo che nel sorriso. Calvero di “Luci della ribalta” è ancora Chaplin, sia pure senza Charlot; e il fallimento di Calvero, che nel film viene attribuito alla vecchiaia, è in realtà il fallimento di Chaplin dovuto, invece, al successo. Ma nella “Contessa di Hong Kong” non c’è rimasto che il ‘taglio’ classico di Chaplin, qualche cosa di simile alla cosiddetta ‘linea’ dei grandi sarti.
Così il cerchio si chiude: dalla ribellione contro l’ingiustizia del mondo all’inchino alla regina Elisabetta. Ma quello che conta, alla fine, in questo conservatorismo sociale di Chaplin è la fedeltà a sé stesso. Strano a dirsi, Chaplin per essere il corrosivo critico del mondo tardo-capitalista che è stato, doveva essere conservatore per forza a livello artistico. Egli doveva cioè tenere in vita fino all’ultimo l’intuizione geniale dalla quale era nato il personaggio di Charlot. È stato come un fuoco sacro che Chaplin ha procurato di tenere acceso più a lungo possibile. Ben sapendo che questo e nient’altro era ciò su cui poteva contare nella vita. Chaplin lo fa capire chiaramente e sinceramente in “Luci della ribalta”: non contano la giustizia, l’amore, gli affetti, la verità e così via; conta soltanto il momento di vitalità miracolosa che permette alla danzatrice di volare attraverso la scena e al vecchio attore di scatenare il ritmo delle gag.»
Alberto Moravia, Charlot sta bene, è morto Mr. Chaplin.