Nel 1970, il regime dei colonnelli costringe a domicilio coatto a Karlòvasi (nell’isola di Samo) Ghiannis Ritsos. Privato della libertà, il poeta scrive il monologo drammatico ῾Ελένη, che mostra una Elena in esilio, che nasconde con un fiore “il sorriso della libertà”.
Oh, questo esilio dentro i nostri stessi abiti che invecchiano,
dentro la nostra stessa pelle che avvizzisce; mentre le nostre dita
non riescono più a stringere, a reggere intorno al nostro corpo
neppure la coperta, che si solleva da sola, si disfà, scompare, lasciandoci
scoperti di fronte al vuoto (…).
I morti non ci danno più pena ormai, – ed è strano – non è vero? –
non tanto per loro, quanto per noi, – questa loro neutrale familiarità
nei confronti di uno spazio che li ha respinti e per cui non contribuiscono più
né alle spese di manutenzione né all’ansia per il suo sfacelo,
loro, realizzati e immutabili, solo appena un po’ più grandi (…).
Oh, sì, talvolta rido, e sento il mio riso rauco che sale
non già dal petto, ma da molto più in basso, dai piedi; da più in basso ancora,
dalle viscere della terra. E rido. Com’era tutto senza senso,
senza scopo, durata né sostanza – ricchezze, guerre, glorie e invidie,
gioielli e la mia stessa bellezza. Che stupide leggende,
cigni e Troie e amori e gesta. Li incontrai di nuovo,
durante banchetti funebri e notturni, i miei vecchi amanti, con le barbe
bianche,
i capelli bianchi, i ventri ingrossati, quasi fossero
già incinti della loro morte, divorare con un’estranea avidità
l’arrosto di capretto, evitando di divinare il futuro sull’osso della spalla –
divinare che cosa? –
un’ombra piatta con appena qualche macchia bianca copriva tutto l’osso.
Io, come sai, conservavo ancora l’antica bellezza
quasi per miracolo (…).
Non guardai altro; non udivo quasi i loro gridi di guerra –
io, lassù, sulle mura, sopra le teste dei mortali, aerea, carnale,
senza appartenere a nessuno, senza avere bisogno di nessuno,
come se fossi (nella mia indipendenza) tutto quanto l’amore, – libera
dal timore della morte e del tempo, con un fiore bianco tra i capelli,
con un fiore tra i seni, e un altro tra le labbra per nascondere
il sorriso della libertà. Avrebbero potuto
colpirmi da entrambi i lati con le frecce. Mi offrivo a bersaglio
camminando lentamente sulle mura, stagliandomi
nel cielo porporino della sera. Tenevo gli occhi chiusi
per agevolare un gesto d’ostilità da parte loro – ben sapendo in fondo
che nessuno l’avrebbe osato. Le loro mani tremavano per il bagliore
della mia bellezza e immortalità – (forse ora posso aggiungere:
non la temevo la morte, perché la sentivo così lontana). Allora
gettai i due fiori dai seni e dai capelli; – il terzo
lo tenevo ancora tra le labbra; – li gettai ai due lati delle mura
con gesto d’assoluta degnazione. E allora gli uomini, dentro e fuori le mura,
si gettarono l’uno sull’altro, avversari e alleati, per conquistare
quei fiori e offrirmeli – i miei fiori. Non vidi
nient’altro dopo, – soltanto schiene curve, come se tutti
fossero inginocchiati per terra, dove seccava al sole il sangue; – forse
calpestavano già quei fiori. Non vidi. Avevo mosso le mani,
mi ero sollevata sulle punte dei piedi, e ascesi al cielo
lasciandomi cadere di bocca anche il terzo fiore.
Da: Elena (in: Quarta dimensione).