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LE CITAZIONI: Galli, la destra al potere

by Ernesto Scelza
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“Ci sono rischi per la democrazia?” si chiede il politologo Carlo Galli: “Una parte di ceto politico e di opinione pubblica vive la fase della destra al potere con frustrazione, incredulità e impazienza poiché trova incredibile il fatto di non essere più al comando, o di non scorgere più i tradizionali valori progressisti custoditi nei Palazzi della Repubblica. Dall’altra parte, naturalmente, c’è il tripudio di chi vede appagato un lungo sogno di rivalsa, e gusta un cibo – il potere – di cui è stato lungamente digiuno. Le due parti si detestano, si delegittimano, si disprezzano, e alimentano la guerra civile culturale che spacca la società”.

«L’accusa di nutrire nostalgie fasciste, di non avere tagliato le radici con il Male, di averle semmai a stento occultate, ha accompagnato tutta la storia della destra italiana nella Seconda repubblica. E anche la breve storia di fdi, il cui legame con il fascismo sarebbe provato dal fatto che nel suo discorso politico il lessico esplicito dell’antifascismo non riesce a fare breccia. Ciò è vero, ma deriva soprattutto dal desiderio di non alienarsi la quota di elettorato di origine exmissina che fdi raccoglie – un desiderio che spiega anche l’utilizzazione del simbolo della Fiamma tricolore, ottenuto nel 2013 e opportunamente privato del trapezio nero (il catafalco di Mussolini, secondo la vulgata) che ne costituiva il basamento quando era simbolo del msi e di an; il calcolo elettorale di “un partito nuovo per un’antica tradizione” (da “Giorgio a Giorgia”, rivendicazione di una continuità emotiva con Giorgio Almirante, a beneficio degli elettori “storici”) discende dal fatto che, per quanto il superamento del fascismo sia la posizione ufficiale dei vertici delle formazioni post-missine, in una parte dei quadri intermedi e della base tradizionale sono rimaste antiche nostalgie e simpatie (la prassi antidemocratica violenta è però passata a formazioni esterne); ma sicuramente nasce anche dalla percezione dei vertici che il grosso della nuova base elettorale è estraneo sia al fascismo e al neofascismo sia alla religione civile dell’antifascismo, per diffidenza verso la politica in generale. Insomma, anche se è vero che buona parte dei ceti dirigenti di fdi ha nella propria biografia una socializzazione alla politica prevalentemente mediata da esperienze giovanili in an o nel msi, è anche vero che non ne sembrano dottrinariamente prigionieri, né paiono impegnati in un esercizio sistematico di simulazione e dissimulazione, quanto semmai nel superamento – molto più forte è in loro la memoria degli “anni di piombo”. Non a caso, nelle Tesi di Trieste (a conclusione) del congresso di fdi del 2017 si parla di “sanare le ferite dell’interminabile guerra civile che ha segnato la nascita della storia repubblicana” del paese. Una vecchia tesi missina, che implica una de-enfatizzazione del nesso fascismo antifascismo e, certo, una sottovalutazione della originaria componente antifascista della Costituzione, una troppo facile neutralizzazione di quel conflitto; ma tutto ciò, verosimilmente, è una delle componenti del recente successo elettorale del partito, che guadagna spazi ben al di fuori del tradizionale elettorato della destra radicale.

Sembra quindi che il fascismo (e l’antifascismo) appartenga ormai al passato per una parte importante dei dirigenti della destra, che cioè sia stato storicizzato ed escluso non solo dalla riflessione ma anche dall’orizzonte politico pratico, con maggiore o minore imbarazzo o rimpianto; ma che invece sia per gli antifascisti un passato che non passa, un eterno presente. Il che per certi versi è giusto, perché l’antifascismo è l’origine storica, teorica e politica della repubblica, e in quanto tale dà l’orientamento alla Costituzione, che oltre a essere ideologicamente e complessivamente antifascista nella sostanza e nell’impianto democratico vieta anche esplicitamente, alla xii disposizione transitoria e finale, la “ricostituzione in qualsiasi forma del disciolto partito fascista”. (…) Ma con precoci sentenze già nella seconda metà degli anni Cinquanta la Corte costituzionale ha stabilito che l’elemento ideologico (l’apologia di fascismo) è punibile solo se rivolto a fini pratici. Come è stato anche di recente confermato dalla Cassazione penale, insomma, quella legge configura un “reato di pericolo concreto” e quindi “non sanziona le manifestazioni di pensiero e dell’ideologia fascista in sé, ma solo quelle manifestazioni che determinino il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste, in relazione al momento ed all’ambiente in cui sono compiute”, in quanto minaccino concretamente “la tenuta dell’ordine democratico e dei valori ad esso sottesi”. (…) Piaccia o no, ciò che è punita è la ripresa effettiva delle pratiche fasciste. È quindi evidente che quella previsione costituzionale, con le norme ordinarie che ne discendono, non assume alcune caratteristiche del fascismo storico per farne un tipo ideale di “fascismo” astorico, sulla base del quale giudicare e criticare una formazione politica determinata: il fascismo perderebbe la propria concretezza per diventare così un “genere prossimo” in cui fare rientrare di volta in volta questa o quella “differenza specifica”.»

Carlo Galli, La Destra al potere. Rischi per la democrazia?