“Il referendum su Brexit, l’elezione di Donald Trump, l’ascesa dei movimenti populisti in Europa e in Italia. Istituzioni e meccanismi che hanno regolato la politica e il dibattito pubblico per decenni sembrano sempre più pericolanti, se non già in macerie” sono le parole con cui è presentata la ricerca dello storico Francis Fukuyama che già alla fine dello scorso secolo aveva suscitato un acceso dibattito attorno alla tesi della “fine della storia”. Ora, così introduce: “Questo libro non sarebbe mai stato scritto se, nel novembre del 2016, Donald Trump non fosse stato eletto presidente. Come molti americani, anch’io sono rimasto sbalordito da questo risultato e turbato dalle sue implicazioni per gli Stati Uniti e per il mondo”.
«Molto prima dell’elezione di Trump (la prima elezione del 2016, ndr) avevo scritto che le istituzioni americane andavano decadendo via via che lo stato finiva sempre più solidamente nelle mani di potenti gruppi di interesse e veniva rinchiuso in una rigida struttura incapace di autoriformarsi.
Trump stesso era un prodotto di questo decadimento e contemporaneamente un suo sollecitatore. La promessa alla base della sua candidatura era che, da outsider, avrebbe usato il mandato popolare per dare uno scossone al sistema e renderlo nuovamente funzionale. Gli americani erano stanchi dello stallo partitico e sognavano un leader forte in grado di tornare a unire il paese, liberandolo da quella che io definivo “vetocrazia”: la capacità di gruppi di interesse di bloccare l’azione collettiva (…).
Trump rappresentava una più ampia tendenza della politica internazionale, in direzione di quello che è stato etichettato come “nazionalismo populista”. I leader populisti mirano a sfruttare la legittimazione conferita da elezioni democratiche per consolidare il proprio potere. Rivendicano una connessione carismatica diretta con “il popolo”, che spesso viene definito in ristretti termini etnici che escludono fasce consistenti della popolazione. Non amano le istituzioni e cercano di indebolire i sistemi di controllo e i contrappesi che limitano il potere personale di un leader in una moderna democrazia liberale: i tribunali, l’assemblea legislativa, un sistema mediatico indipendente e una burocrazia imparziale. (…) La spinta globale verso la democrazia iniziata alla metà degli anni settanta è sfociata in quella che il mio collega Larry Diamond chiama “recessione globale”. Nel 1970 esistevano solo circa trentacinque democrazie elettorali, un numero che è cresciuto costantemente nel corso dei successivi tre decenni fino a raggiungere le circa centoventi nei primi anni duemila. L’accelerazione più forte si è avuta tra il 1989 e il 1991, quando il crollo del comunismo nell’Europa orientale e nell’ex Unione Sovietica ha dato il via a un’ondata democratica in tutta la regione. Dalla metà del primo decennio del nuovo secolo, però, la tendenza si è ribaltata (…).
La politica del XX secolo s’era andata strutturando lungo un ventaglio sinistra-destra definito da questioni economiche, con la sinistra che perseguiva più eguaglianza e la destra che esigeva maggiore libertà (…). La destra viceversa era interessata soprattutto a ridurre la portata degli interventi del governo e a promuovere il settore privato. Nel secondo decennio del XXI secolo quel ventaglio mostra di cedere il passo in molte regioni a un altro definito in base all’identità. La sinistra si è concentrata meno sulla diffusione dell’eguaglianza economica e più sulla promozione degli interessi di un’ampia varietà di gruppi percepiti come marginalizzati: neri, immigrati, donne, ispanici, la comunità Lgbt, rifugiati, e simili. La destra si sta ridefinendo come organizzazione di patrioti che cerca di difendere la tradizionale identità nazionale, un’identità che spesso viene esplicitamente connessa a razza, etnia o religione. (…) La si potrebbe chiamare “politica del risentimento”.»
Francis Fukuyama, Identità. La ricerca della dignità e i nuovi populismi.