«… per uno come me, e magari più intelligente e meno sconcertato di me, la cultura appare oggi come un campo di battaglia ancora possibile, ma fuori da ogni illusione di vittoria e partendo dalla constatazione, per cominciare, di quanto sia stato e sia facile per il potere di servirsi della cultura – che non è mai univoca anche se oggi si è riusciti a farla sembrare tale – cambiando di segno alla sua storia e illudendo milioni di persone che di cultura vivono di una sua forza ancora liberatoria, non evasiva e perfino necessaria. Facendone facilmente dei complici nella manipolazione, nel dominio. È un lavoro, ancora una volta, di cui devono farsi carico minoranze salde nelle loro persuasioni, convinte della necessità e dell’urgenza dell’azione, nauseate dalle compromissioni universitarie e affini, dalla lotofaga insipienza dei predicanti e idealizzanti, degli accettanti.
Da dove partire, da dove ricominciare? Il discorso è aperto, una volta che ci si sia liberati dalle menzogne e illusioni dell’epoca, e riguarda, a mio parere, anzitutto il terreno della scuola, dell’educazione. Di lì si può partire, anche in pochi, convinti che tra maestri e professori (perfino, forse, in qualche angolo appartato dell’università) ci sia ancora qualcuna o qualcuno che crede nelle possibilità liberatorie della conoscenza, della cultura, di una trasmissione, e soprattutto di un metodo di lavoro che dia all’educazione, in senso socratico, la necessità e la dignità che le si è data in passato, da parte anche allora di minoranze non-accettanti.»
Goffredo Fofi, Fallimenti, introduzione a L’oppio del popolo.