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LE CITAZIONI: Fabbri, quali Americhe si confrontano con il voto

by Ernesto Scelza
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“Viviamo una fase di egemonia contrastata” afferma l’analista geopolitico Dario Fabbri nel suo ultimo studio. Il prossimo 4 novembre le due anime della potenza egemone Usa si confrontano nelle elezioni per il Presidente: quella progressista delle due Coast, East e West, e quella della pancia del Midwest, con l’aggiunta dei nostalgici dei “bei, vecchi valori americani” degli stati del Sud.

 

«Da anni gli americani abitano gli abissi della depressione (…). Harris e Trump non personificano (impossibili) schieramenti ideologici, ma semplicemente la risposta alla depressione delle due metà d’America.

(…) Gli americani delle coste si compiacciono di un carezzevole e sconosciuto minimalismo. Vogliono vivere di economia (!), apprezzare la quotidianità. Come un qualsiasi popolo confitto in campo straniero, (auto)escluso dal massimo agone. Certi del declino, parametrano l’esistenza sul tedio delle giornate, scandite dai punti di pil, dall’estensione dello stato sociale, dalla trasformazione green (sic) della società. Il materialismo negli anni imposto agli altri per umiliarli, ora applicano a sé.

Cancellato il passato, spaventati dal presente, si concentrano sul futuro, immaginario di ogni fallimento. (…) In assenza di storia, vince sempre la suggestione. La questione ecologica, pure rilevante, ascende al grottesco. Contrari alla violenza, i nuovi americani propongono di sospendere l’assimilazione degli ispanici, specie chicanos.

(…) L’America interna risponde al male di vivere emettendo rabbia in quantità. Tra i Grandi Laghi e il Golfo del Messico, tra il bacino del Mississippi e le Montagne Rocciose. Se avvilimento si rintraccia ovunque, da queste parti di più. È depresso un quarto della popolazione di Alabama, Arkansas, Kentucky, Louisiana, Oklahoma, Tennessee, un quinto di Montana e Utah. Male peggiore perché avvertito nel sagrato di un paese oleografico e perduto. Specie nel Midwest, Medio Occidente che in realtà è Medio Oriente geografico.

(…) L’America nota come profonda vuole recuperare la testa del paese. Con la forza. Così il 6 gennaio 2021. Sconfitti alle urne, “i deplorabili” dileggiati da Hillary Clinton si lanciarono contro il Campidoglio – altro toponimo di traslazione imperiale.

Per la prima volta, la bandiera confederata apparve nelle aule del Congresso unionista, sventolata da golpisti di provenienza medioccidentale. Sgrammaticatura figlia (culturale) dei tempi. Con i media concentrati sulla venatura trumpiana dell’assalto, nel solito equivoco che vuole il leader causa e non rappresentazione degli eventi.

Peraltro, i presidenti americani di fatto non hanno poteri, né potrebbero distruggere unilateralmente la globalizzazione o la Nato, neppure disponessero di dieci mandati. Valgano gli ultimi due casi.

Giunto alla Casa Bianca, Trump promise quattro risultati principali: diminuzione del deficit commerciale; rimpatrio di molti militari americani; apertura alla Russia; annullamento dell’immigrazione. Quando se ne andò, deficit commerciale e soldati all’estero erano aumentati; aveva subito un impeachment perché accusato di intelligenza con il Cremlino, senza che vi fosse alcuna apertura a Mosca; il numero degli immigrati entrati nel paese risultava mediamente superiore a quello degli anni di Obama.

Così, al suo insediamento, Biden promise di migliorare i rapporti con la Cina; di porre fine al protezionismo (che non esiste); di “ripristinare l’affidabilità degli Stati Uniti”; una migliore accoglienza degli immigrati.

Quattro anni dopo, Washington ha confermato e aumentato i dazi ai danni di Pechino; ha incrementato gli incentivi per produrre in patria; ha sperimentato il maggior odio del resto del mondo durante la guerra d’Ucraina, senza neppure avvertire i satelliti europei del ritiro dall’Afghanistan, deciso da decenni in seno all’opinione pubblica; ha autorizzato la costruzione di altri trenta chilometri di muro al confine con il Messico.

Non per cialtroneria dei poveri presidenti. Questi mancano dei mezzi, risultano insignificanti.

Conviene concentrarsi sulla disperazione degli americani che segnerà il pianeta. E le nostre vite. Proseguendo ben dopo le elezioni. (…) Impegnati a discettare di Harris o Trump, quasi esistessero davvero, rischiamo di mancare i tumulti in rapido avvicinamento. Anzitutto, riguardanti la Cina, principale sfidante degli Stati Uniti. Con epicentro su Taiwan, l’isola più pericolosa del mondo.»

Dario Fabbri, Sotto la pelle del mondo.