Il “Prometeo incatenato” -parte di una trilogia che comprendeva un “Prometeo portatore di fuoco” e un “Prometeo liberato” andati perduti- va in scena in una data incerta (forse il 469 a.C.) in una Atene che si avviava verso il momento più felice della sua esistenza, la condizione di vita della quale e il cui benessere intendeva celebrare.
«Un tempo – dice Prometeo, il Titano – essi (i mortali) non conoscevano solatie dimore di mattoni, né l’arte di lavorare il legno. Ma si scavavano tane sottoterra, come le formiche, nel fondo di antri senza sole. Né avevano segno sicuro dell’inverno o della primavera fiorita o della fruttuosa estate, ma senza criterio operavano finché io insegnai loro a discernere il levare e il tramontare incerto degli astri. E anche il numero, suprema delle invenzioni, io trovai per loro, e la varia composizione delle lettere, memoria di tutte le cose, operosa madre di ogni cultura. E primo domai gli animali perché obbedissero e succedessero ai mortali nelle fatiche più dure, e sotto i carri io resi docili alle redini i cavalli, ornamento di fastosi lussi. E nessun altro, se non io, inventò gli scafi, che con ali di lino errando sul mare portano i naviganti. Ed io, che tali invenzioni trovai per gli uomini, io stesso ora, l’infelice, non ho espediente alcuno onde sottrarmi a questa tortura. (…) Ma più ancora stupirai a sentir le altre cose, quali arti e quali mezzi io escogitai. Questo è il più grande: se uno cadeva in malattia non aveva rimedio, né di cibo né di bevanda né di unguento, ma per mancanza di farmaci periva, prima che io mostrassi loro le mescolanze dei rimedi benigni a scacciare ogni morbo. (…) E inoltre bronzo, argento, ferro e oro, metalli utili e nascosti sotto terra chi potrebbe dire di aver trovato prima di me? (…) In brevi parole ogni cosa ascolta: tutte le arti (technai) dei mortali vengono da Prometeo.»
Eschilo, Prometeo incatenato, vv. 448-506 (trad. di Raffaele Cantarella).