Ivano Dionigi introduce così la serie di letture, incontri e lezioni del Centro studi “La permanenza del classico” volta a ripensare il ruolo che l’idea di “rivoluzione” ha rappresentato nella coscienza dell’Occidente. A partire dalla sua comparsa nella storia e nel dibattito politico del mondo antico, e con il portato delle sue interne, costitutive, contraddizioni.
«Strana parola, “rivoluzione”, che da un lato indica il mutamento repentino e radicale, dall’altro evoca il ciclico ritorno delle cose al loro stato d’origine. Non a caso, già nell’antichità, una teoria ciclica delle rivoluzioni (anakyklosis) è stata elaborata da Polibio, non senza anticipazioni in Platone e Aristotele. Del resto, la parola greca che designa la guerra civile, lo scontro “rivoluzionario” fra i partiti o fra le classi, suona a noi come evocazione della massima immobilità: stasis. Che si oppone, in apparenza, all’altra parola greca per lo sconvolgimento della vita sociale e dei suoi ordinamenti: kinesis.
Ma di questi paradossi l’antichità è generosa (…). Nell’antica Atene, tutti i maggiori mutamenti sociali e istituzionali si conducevano in nome della patrios politeia, del ritorno alla “costituzione dei padri”.
Ma si pensi al caso, ancor più lampante, di Roma. Roma è l’emblema del culto del passato: culla del mos maiorum, dei prisci mores, dei patres, degli exempla, ovvero di tutto ciò che è notum; con la conseguente condanna e censura di ciò che è novum, “inaudito, non-sperimentato, mai conosciuto”: nella religione (XII Tabulae: “nessuno per proprio conto abbia dèi né nuovi né forestieri”; e la religione cristiana sarà la religio nova rispetto alla vetus) come nella politica (res novae, espressione sospetta e sinistra, che non di rado corrisponde al nostro “rivoluzione”). Per questo l’homo novus sarà oggetto di diffidenza e destinato a fine infausta (Mario, Cicerone); per questo la spedizione degli Argonauti sarà condannata da Seneca, nella Medea, come un nefas (“atto sacrilego”), perché quella navis comporta novae leges che infrangono le leges notae e approda a una nova terra che supera la terra nota; per questo il messaggio iconoclastico del De rerum natura lucreziano (negazione della politica e della religio, cioè del trono e dell’altare: binomio indissolubile a Roma) sarà oggetto di una vera e propria congiura del silenzio: un silenzio che rischierà di vanificare la novitas rerum, il messaggio rivoluzionario affidato a parole altrettanto rivoluzionarie (nova verba), che a Lucrezio costarono faticose veglie nelle “notti stellate”. Eppure Roma ‒ regno dell’immutabile, del notum ‒ è luogo privilegiato di “rivoluzioni”: dalla cacciata dei re alle secessioni aventiniane, dalla lunga crisi della Respublica fino al cesaricidio (modello di tanti, posteriori regicidi); fino a quella esemplare “rivoluzione” mascherata da restaurazione che fu, con Augusto, l’istituzione dell’impero.
E Roma, a sua volta, sarà destinata a fornire il modello a molte rivoluzioni a venire, che si proporranno come restaurazione, ripristino, ritorno a ciò che un tempo è stato. Da rivoluzioni culturali come quella dell’Umanesimo e del Rinascimento, a rivoluzioni politiche e sociali come quelle avviate dal 1789 parigino, atto di nascita dell’Europa contemporanea, che volle essere una anakyklosis, un ritorno alla libertà antica.
Giova riflettere su tali paradossi. Specie in tempi come il nostro, quando i conservatori vestono volentieri la maschera dei novatores, e quando forse è autentica rivoluzione soltanto saper “conservare” (servare), cioè custodire e rispettare i valori della nostra Respublica.»
Ivano Dionigi, Res novae, res notae.