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LE CITAZIONI: Di Cesare. Migranti, la condanna all’immobilità

by Ernesto Scelza
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Donatella Di Cesare, nel 2014, visita in due riprese il “Centro di Internamento e di Espulsione” (CIE) di Ponte Galeria, presso Roma, oggi “Centro di Permanenza per il Rimpatrio” (CPR), e racconta quello che ha visto in un denso studio che contiene nel suo sottotitolo le ragioni e il senso: “Vita e violenza nei centri per stranieri”. La filosofa ne denuncia la violazione sistematica della dignità dei migranti che vi sono – più che ospitati – reclusi e condannati ad una degradante immobilità senza prospettive. Oggi sono in molti a riconoscere questi “centri” come istituzioni totali in cui vengono reclusi per un tempo indeterminato i migranti non autorizzati, gli irregolari, i cosiddetti “clandestini”.

 

«Nel mondo globalizzato il successo si misura con la possibilità di muoversi liberamente. L’immobilità è invece il segno della sconfitta: chi resta indietro è emarginato, escluso dai luoghi che gli altri possono attraversare, confinato a una dimensione locale.

Non stupisce, allora, che il divieto di muoversi rappresenti la punizione più dura, il castigo più crudele, lo strumento più efficace per neutralizzare i soggetti ritenuti pericolosi.

Anche nel passato la segregazione è stata il modo per risolvere il problema posto da tutti coloro che non erano accettati nel corpo sociale: schiavi, stranieri, ebrei, pazzi, malati, lebbrosi, eretici, vagabondi. Il permesso di uscire dai quartieri, in cui erano relegati, prevedeva tuttavia l’obbligo di esibire in pubblico un marchio di appartenenza che li rinviava a uno spazio diverso. La segregazione, cioè l’isolamento spaziale, ha avuto così nei secoli lo scopo di rendere visibile e di perpetuare l’estraneazione dei diversi.

L’idea della prigione nasce da qui. Incarcerare non è che la forma estrema di restrizione dello spazio. Perciò l’internamento è sempre anche esclusione.

Pur nella continuità che lega il CIE (Centro di Identificazione ed Espulsione, ndr) alle forme precedenti e coeve di segregazione, c’è però una differenza che non deve sfuggire. Non solo non vi è alcun regolamento, né sono previsti una disciplina formale, un lavoro produttivo o una attività organizzata. Al contrario di altre istituzioni totali, che hanno una finalità riabilitante e mirano alla guarigione, alla reintegrazione o al recupero, sebbene manchino poi spesso il loro obiettivo ufficiale, il CIE non ha altro scopo che il trattenimento e l’espulsione.

La sorveglianza deve assicurarsi costantemente che gli internati, bloccati in quella mortificante sala d’attesa per il terzo mondo, restino dove sono. Non importa quello che fanno; l’importante è, anzi, che non facciano nulla. L’esclusione passa per quel nulla a cui li assegna la condanna all’immobilità.

In questo senso Ponte Galeria, più che a un campo di concentramento, quel laboratorio della società totalitaria, dove si sperimentava la schiavizzazione dell’uomo, appare un campo in cui, nella società planetaria, si mettono a punto le tecniche per smaltire le scorie umane della globalizzazione.

Al rifiuto e all’esclusione si aggiunge dunque, potenziandoli, l’immobilità forzata che, nell’era dell’illimitato, significa negare le libertà globali a una parte dell’umanità. In campi come questi emerge con chiarezza quello che Zygmunt Bauman ha più volte ribadito, e cioè che la globalizzazione al vertice procede di pari passo con la frammentazione e il disadattamento al fondo.»

Donatella Di Cesare, Crimini contro l’ospitalità.

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