Home Cultura LE CITAZIONI: de Montaigne. La crudeltà dei vincitori

LE CITAZIONI: de Montaigne. La crudeltà dei vincitori

Michel de Montaigne

by Ernesto Scelza
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La vicenda del re egizio Psammetico che resta muto e immobile davanti alle crudeltà di Cambise, è narrata da Erodoto, ripresa da Montaigne nel capitolo II “Della tristezza” dei suoi “Saggi” e da questi da Walter Benjamin. Benjamin considera Erodoto non soltanto il “padre della storiografia” ma il maestro della narrazione, e riscontra nell’episodio esposto in cosa consista il vero racconto: “Erodoto non spiega nulla. La sua narrazione è asciutta all’estremo. Ecco perché a distanza di millenni questa storia dell’antico Egitto è ancora in grado di scatenare meraviglia e riflessioni. Assomiglia a quei semi rinchiusi per migliaia d’anni senz’aria nelle camere delle piramidi, che hanno mantenuto il loro potere di germinazione sino al giorno d’oggi”.

 

«Io sono fra i più immuni da tale passione (la tristezza, ndr). E non mi piace né la stimo, benché il mondo, come per un patto, abbia preso a onorarla di particolare favore. Ne adornano la saggezza, la virtù, la coscienza: sciocco e mostruoso ornamento. Gli Italiani, più acconciamente, hanno battezzato col suo nome la malvagità. Infatti, è una qualità sempre nociva, sempre folle. E, in quanto sempre vile e bassa, gli stoici vietano ai loro saggi di provarla. Ma si narra che Psammetico, re d’Egitto, sconfitto e catturato da Cambise, re di Persia, vedendosi passar davanti la figlia prigioniera che, vestita da serva, era stata mandata ad attinger acqua, mentre tutti i suoi amici intorno a lui piangevano e si lamentavano, rimase muto, senza far parola, gli occhi fissi a terra. E vedendo anche, subito dopo, che suo figlio era condotto a morte, mantenne lo stesso contegno. Ma avendo scorto uno dei suoi che veniva condotto fra i prigionieri, cominciò a darsi pugni in testa e a dare segni di uno straordinario dolore (…).

Si potrebbe interpretare… che, avendo Cambise chiesto a Psammetico come mai, non essendosi commosso per la disgrazia di suo figlio e di sua figlia, sopportasse così male quella d’un amico, egli rispose: “È perché solo quest’ultimo dispiacere si può manifestare con le lacrime, i primi due oltrepassando di gran lunga ogni possibile mezzo di espressione”. Forse cadrebbe qui a proposito l’idea di quell’antico pittore, che dovendo raffigurare nel sacrificio di Ifigenia il dolore degli astanti in proporzione all’interesse che ognuno portava alla morte di quella bella fanciulla innocente, esaurite le ultime risorse della sua arte, quando arrivò al padre della fanciulla, lo dipinse col volto coperto. Come se nessun atteggiamento potesse esprimere un tal grado di dolore. Ecco perché i poeti immaginano che Niobe, quella misera madre, perduti dapprima sette figli e poi altrettante figlie, sopraffatta dalle perdite, sia stata infine trasformata in roccia, Diriguisse malis (“Esser stata pietrificata dalle sventure”) per esprimere quella cupa, muta e sorda ebetudine che ci tramortisce quando le disgrazie ci opprimono superando le nostre forze. Invero, la violenza d’un dispiacere, per essere estrema, deve sbigottire del tutto l’anima, e impedirle la libertà delle sue azioni: come nell’improvviso terrore d’una brutta notizia ci accade di sentirci afferrati, tramortiti e come paralizzati in tutti i movimenti. Sicché l’anima, abbandonandosi poi alle lacrime e ai lamenti, sembra allentarsi, sciogliersi, maggiormente distendersi e mettersi a suo agio, Et via vix tandem voci laxata dolore est (“E infine, a gran fatica, il dolore lasciò passare la voce”).»

Michel de Montaigne, Saggi (trad. Fausta Garavini).

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