La prima versione de “La leggenda dei lazzari” è del 1895, in “Archivio per lo studio delle tradizioni popolari” (“I lazzari”), successivamente apparve in varie raccolte ed edizioni. Fino all’inserimento, nel 1914, nel volume “Aneddoti e profili settecenteschi”, e quindi in “Aneddoti di varia letteratura”, nel 1942. Ora è in “Un paradiso abitato da diavoli”.
«I “lazzari” erano, dunque, l’infima classe dei proletari di Napoli, quella classe che i sociologi moderni contrappongono al proletario industriale, del quale infatti forma spesso l’antitesi e talvolta l’avversaria, col nome di «proletario cencioso» (Lumpenproletariat). Naturalmente, codesti proletari napoletani, oltre i caratteri comuni ai proletari in generale, e in ispecie a quelli delle grandi città, hanno alcuni caratteri particolari, determinati dalle condizioni particolari del nostro paese. Qui il clima è mite, la vita relativamente facile, si può dormire all’aria aperta e nutrirsi di poco, far di meno di molte cose e per conseguenza esser disposti alla spensieratezza; la conformazione morale e intellettuale non spinge alla rivolta, ma inclina agli accomodamenti e alla rassegnazione. E i caratteri e le abitudini di questa classe di proletari variano col variare delle condizioni storiche. Ad esempio, per fermarci ad alcune parti esteriori, oggi il miserabile che non ha casa deve di necessità ridursi la sera nelle locande a un soldo, e pochi sfuggono ai regolamenti di polizia urbana dormendo per le piazze e sui gradini delle chiese. Ma, un paio di secoli fa, la povera gente si rannicchiava, per dormire, nelle baracche che ingombravano le piazze, sotto le pennate e i banconi delle botteghe; onde ancora resta, nel dialetto, la parola banconaro o banchiere, come sinonimo di plebeo e, per ingiuria, di mascalzone. Oggi è assai raro vedere gente scalza per le vie di Napoli, e trent’anni fa era ancora cosa comunissima. E il numero dei proletari segue gli ondeggiamenti economici del paese; e non mai Napoli ebbe una massa così spaventosa di pezzenti affamati come nella piena età della dominazione spagnuola. Applicato il nome, nel modo che s’è visto, ai plebei della sollevazione di Masaniello, esso per qualche tempo non ebbe grande fortuna, e si trova adoperato quasi soltanto dagli storici di quella sollevazione.
(…) Sotto l’aspetto economico, essa (classe del popolo napoletano) si componeva di tutti i “facchini”, e dei commessi e inservienti di negozi, principalmente dei funaioli, ferrari, ottonieri, stagnini, chiavettieri, ferrivecchi, conciatori di pelli, sarti e calzolai. I commessi e inservienti di altri mestieri, lanaiuoli, setaiuoli, falegnami, ebanisti, orefici, argentieri, gioiellieri, si tenevano un grado più su; e così quelli che, uscendo dagli stessi strati sociali, servivano da domestici, cocchieri, camerieri, cavalcanti, paggi, e si erano ripuliti e vestivano bene. Tutti costoro non appartenevano direttamente alla classe dei lazzari, salvoché, per il loro temperamento e costume, non facessero atti da lazzari, partecipando al “Iazzarismo”. Perché il “Iazzarismo” non era una semplice condizione economica, ma un atteggiamento psicologico e una condizione morale che conferivano un carattere spiccato alla plebe napoletana, notato da tutti i visitatori forestieri, i quali, lungo il Settecento, non si stancavano di discorrerne e commentarlo nelle loro descrizioni di viaggio. I “Iazzari” avevano ridotto al minimo i loro bisogni di abitazione, di vesti e di vitto: dormivano tre quarti dell’anno all’aria aperta, sui gradini delle chiese e dei palazzi signorili, sulle piazze, sulla spiaggia del mare e, d’inverno, si ricoveravano in certe cave; vestivano un calzone di tela nelle tre stagioni miti e l’inverno si gettavano sulle spalle un mantello di grosso panno; per il capo, usavano un berretto rosso; si nutrivano di erbaggi di frutta e di maccheroni che compravano per istrada e mangiavano con le mani. Vivevano giorno per giorno, senza darsi la pena di raggranellare più di quanto servisse per la giornata; spensierati e gai, di una gaiezza tra comica e umoristica. La povertà non li abbatteva né li faceva tristi e cupi, e comportava elasticità di spirito e una sorta di calma visione tra artistica e filosofica.»
Benedetto Croce, La leggenda dei lazzari.