È la parte conclusiva del racconto: Marlowe ha risalito il fiume Congo alla ricerca del mercante d’avorio Kurtz. Lo ha trovato. Circondato dalla venerazione degli indigeni e avvolto nelle tenebre del potere. Ora ne ascolta le ultime parole, sul battello che discende il fiume.
«La scura corrente si allontanava rapida dal cuore della tenebra, portandoci giù verso il mare a una velocità doppia di quella della nostra risalita. La vita di Kurtz non sfuggiva meno rapida, trascinata dal riflusso che la spingeva verso l’oceano inesorabile del tempo… Kurtz discorreva. Una voce! Che voce! Risuonò profonda, fino alla fine. Sopravviveva alle sue forze per nascondere nelle magnifiche pieghe dell’eloquenza la sterilità tenebrosa del suo cuore. Oh, lottava! lottava! La desolazione della sua mente affaticata ora era ossessionata da immagini annebbiate, immagini di gloria e di ricchezza che ruotavano ossequiosamente intorno al suo inestinguibile dono di espressione nobile ed elevata. La mia fidanzata, la mia stazione, la mia carriera, le mie idee: erano questi i temi delle occasionali manifestazioni di sentimenti sublimi. L’ombra del Kurtz originario stava al capezzale della sua vuota imitazione, il cui destino era di essere ben presto sepolta nella muffa di quella terra primordiale. L’amore diabolico e l’odio celeste per i misteri che aveva penetrato si contendevano il possesso di quell’anima sazia di emozioni primitive, avida d’ingannevole gloria, di false onorificenze, di tutte le apparenze del successo e del potere.
(…) Ci fu un’avaria – come mi ero aspettato – e dovemmo fermarci sulla punta di un’isola per ripararla… Nel pomeriggio andai a trovarlo: giaceva supino, con gli occhi chiusi e mi ritirai senza far rumore, ma lo sentii mormorare, “Vivere rettamente, morire, morire…” Tesi l’orecchio, ma non ci fu altro. Stava ripetendo qualche discorso nel sonno, o era il frammento di qualche articolo di giornale? Aveva già scritto per dei giornali e intendeva farlo ancora, “per diffondere le mie idee. È un dovere.”
La tenebra che lo circondava era impenetrabile. Lo osservavo come si guarderebbe dall’alto un uomo che giace in fondo a un precipizio dove non brilla mai il sole. Ma non avevo tanto tempo da dedicargli, perché dovevo aiutare il macchinista a smontare i cilindri che perdevano, a raddrizzare una biella piegata, e a fare altre riparazioni… Badavo alla piccola fucina che fortunatamente avevamo a bordo, e sfacchinavo spossato in quel miserabile mucchio di ferraglia, tranne quando i brividi della febbre mi impedivano di reggermi in piedi.
Una sera, entrando da lui con una candela accesa, trasalii nel sentirgli dire con voce un po’ tremolante: “Giaccio qui nella tenebra aspettando la morte.” La luce era a due passi dai suoi occhi. Feci uno sforzo per mormorargli: “Non dica sciocchezze!”, e rimasi curvo sopra di lui come inchiodato.
Non avevo mai visto, e spero di non rivederlo mai, niente di paragonabile al cambiamento che si era operato sui suoi lineamenti. Oh, non ero impietosito. Ero affascinato. Era come se fosse stato strappato un velo. Su quel volto d’avorio vidi l’espressione di un torvo orgoglio, di un potere spietato, di un terrore codardo, e anche di una disperazione immensa e senza rimedio. Stava rivivendo la sua vita in ogni particolare dei suoi desideri, le tentazioni, le capitolazioni, in quel supremo momento di conoscenza completa? Due volte, con voce bassa, lanciò verso non so quale immagine, quale visione, un grido che non era che un soffio: “Che orrore! Che orrore!”»
Joseph Conrad, Cuore di tenebra.