L’immagine della “Spada di Damocle”, di un pericolo incombente, è giunta fino a noi da Cicerone. Ripresa successivamente da Orazio e Severino Boezio, derivava da una leggenda riferita in una perduta “Storia della Sicilia” del quarto secolo a. C. Oggi è un luogo comune, che cela, però, il contesto in cui è stata prodotta: l’ambizione e rischi del potere.
«Per quanto, anche il tiranno Dionisio fece vedere da sé, una volta, quanto si considerava felice. Conversava con uno di quelli che gli erano sempre intorno, Damocle; e questi stava facendo tutto un discorso sulle sue ricchezze, sulla sua potenza, sul prestigio del regime, sull’abbondanza di tutto, sullo splendore della reggia, per concludere a un certo punto che lui, Dionisio, era l’uomo più felice che fosse mai esistito. “Allora, Damocle”, gli propose lui, “dal momento che questa vita ti piace tanto, perché non la gusti un po’ di persona, per provare la mia felicità?” Damocle rispose che era proprio quello che desiderava; e allora il tiranno ordinò che lo si facesse sdraiare su un letto d’oro ricoperto di un bellissimo tappeto con tutti splendidi ricami, e fece mettere in bella mostra su parecchi tavolini vasi d’oro e d’argento. Poi fece disporre intorno alla mensa schiavi scelti e bellissimi, che dovevano servire con cura impeccabile, pronti al cenno di Damocle. C’erano profumi, ghirlande di fiori, aromi che bruciavano, e le mense erano cariche di cibi raffinati. Damocle si sentiva un uomo felice: quando, in mezzo a tutto questo splendore, Dionisio fece sospendere in soffitto una spada scintillante, proprio sopra la testa di quell’uomo felice; e la spada era attaccata a un crine di cavallo. Ecco che non badava più, Damocle, alla bellezza dei servitori e al pregio artistico dell’argento: le mani non toccavano più la tavola, le ghirlande gli cadevano da sole giù dal capo: alla fine supplicò il tiranno di lasciarlo andar via, perché non voleva più saperne, di quella felicità. È chiaro quello che voleva far capire Dionisio: non ci può essere felicità, se si è sempre costretti ad avere paura. Quanto a lui, non aveva più neanche la possibilità di tornare alla giustizia, e di ridare ai suoi concittadini la loro libertà e i loro diritti, perché già nell’età sconsiderata della prima giovinezza s’era messo talmente sulla cattiva strada e ne aveva fatte tante, che oramai, se incominciava a dar retta alla ragione, non poteva più salvarsi.»
Marco Tullio Cicerone, Discussioni tusculane (5, 61-62).