“L’orizzonte del pensiero nel quale mi riconosco è quello della differenza sessuale”: esordisce con questo pronunciamento di appartenenza il saggio della filosofa Adriana Cavarero che, come recita il sottotitolo, indaga “La radice greca della violenza occidentale”. “Rispetto alle due condizioni ontologiche fondamentali di ogni essere umano, che sono la nascita e la morte, il pensiero occidentale, lungi dal considerare fondativa la nascita, la ignora totalmente e definisce l’essere umano a partire dalla morte”.
Il libro, partendo dai miti e dalla filosofia dei Greci, ne mostra l’influsso sul pensiero e sulla politica dell’Occidente come cultura “omosessuale, cioè esclusivamente maschile. Una cultura che genera inevitabilmente violenza e produce quell’individualismo possessivo che nega la relazione essenziale con l’“altro”.
«Rispetto alle due condizioni ontologiche fondamentali dell’essere umano, di ogni essere umano, che sono la nascita e la morte, l’inizio e la fine, la metafisica, lungi dal considerare interessante e fondativa la nascita, la ignora totalmente e misura, definisce l’essere umano a partire dalla morte. Nella lingua greca fin dall’inizio, da Omero, gli uomini sono chiamati i mortali. Questo significa definire gli esseri umani per la loro condizione di morte, di finitezza, di contingenza, per l’angoscia della sparizione. Tutto questo determina fortemente la metafisica occidentale. Hannah Arendt propone come alternativa un pensiero della nascita, che sulla nascita misuri la finitezza e la contingenza dell’umano, e sviluppa questa filosofia in testi molto interessanti.
(…) La morte funziona come categoria fondativa in due ambiti, quello della metafisica, cioè della nascita della filosofia (attraverso Parmenide) e quello dell’ordine politico o della politica (attraverso l’Antigone di Sofocle).
(…) Il secondo ambito in cui la morte diventa fondazione è molto più facile, ed è quello della politica. Qui la morte non funziona soltanto e prevalentemente come sparizione, ma come uccisione. La morte come sparizione non ha una necessità di intervento attivo del soggetto. Si sa che ognuno di noi morirà in qualche modo, ed è uno sparire legato al destino umano. Nella politica la morte rimane angoscia di sparizione, ma la categoria fondativa in quanto morte è la categoria dell’uccidere, della morte provocata, data all’altro e ricevuta dall’altro.
La morte violenta è segno di grande potenza. Hobbes dirà: non c’è potere superiore di quello che toglie la vita. Chi può togliermi la vita, toglie tutto ciò che io ho, è agente della massima potenza. Questo massimo potere dell’uccidere è storicamente maschile: la guerra è una guerra di combattenti maschi. L’eroe che uccide e rischia di essere ucciso misura la sua virtù in questa palestra della morte attiva. L’identità di ciò che in Occidente si intende come il maschile è un’identità fortemente costruita su questa scena del duello, del combattere in cui si uccide e si viene uccisi. È facile capire come il dare la morte in quanto massima potenza sia la risposta al dare la vita come massima potenza del femminile.
La nascita viene ignorata, non tematizzata, non pensata, perché la nascita vede protagonista la soggettività femminile che ha una grande ed esclusiva potenza. Mentre il dare la morte non è geneticamente legato al maschile, il dare la vita è geneticamente legato al femminile.»
Adriana Cavarero, Il femminile negato.