Poco più di dieci anni orsono Michele Ciliberto cura per i tipi di Laterza “La biblioteca laica, il pensiero libero dell’Italia moderna”, una silloge che propone le riflessioni di Machiavelli e Cavour sul rapporto tra la religione, la politica e gli Stati. Ne discute lo storico e filologo Luciano Canfora.
«Che il rapporto tra la religione e la politica (o, se si vuole, la vita sociale) sia uno dei temi di più lunga durata che possano impegnare lo studioso di storia è quasi una ovvietà… in materia, l’Italia (è) stata un luogo nevralgico e sommamente indicativo… Al centro ideale figura la pagina di Machiavelli (dai Discorsi I, 1: “Della religione dei Romani”) sulla religione come “fondamento” del vivere civile. Alla conclusione, in posizione giustamente enfatica, vi è il discorso parlamentare di Cavour culminante nella impegnativa formula “Libera chiesa in libero Stato”. (…) Machiavelli osserva che in Italia l’assenza di religione (e quindi dell’efficacia politicamente positiva che la religione può produrre) è da addebitarsi proprio alla chiesa di Roma (“quelli populi — scrive — che sono più propinqui alla chiesa romana, capo della religione nostra, hanno meno religione”).
Questa considerazione è, per certi versi, vicina a quella cavouriana, posta a fondamento del celebre discorso: che, cioè, proprio il potere temporale della chiesa cattolica ha nociuto e nuoce alla religione, e che dunque tale potere “fu ostacolo non solo alla riorganizzazione dell’Italia ma eziandio allo svolgimento del cattolicismo”.
Ovviamente le concrete situazioni storiche in cui si trovano Machiavelli e Cavour sono incomparabilmente diverse. Ma vi è anche, in Machiavelli, un rifarsi assiduo all’esperienza antica, soprattutto romana, che lo porta ad accentuare quell’elemento “strumentale” (“instrumentum regni”), che viene da alcuni pensatori antichi e che invece in Cavour non c’è. In Machiavelli operano la lettura e l’assimilazione profonda dell’esperienza romana — come sostanza stessa del suo pensiero — vista attraverso Livio, ma anche attraverso quel libro sesto di Polibio che Machiavelli certamente conobbe e nel quale la formulazione apertamente strumentale dell’uso politico della religione come forte ed efficace regolatore sociale è netta e convinta. Modello ideale lo stesso Cesare, impegnatissimo a farsi eleggere pontefice massimo — dunque supremo esponente della religione — ma intimamente impregnato di convincimenti epicurei. Convincimenti che non gli impedirono affatto di attribuire a quella carica religiosa un ruolo centrale in tutta la sua carriera politica. Né era necessario, per un colto romano, simpatizzare per Epicuro, teorico dell’estraneità degli dei rispetto alle cose del mondo. Anche Cicerone, soprattutto nel “De divinatione” ma anche nel “De natura deorum” ci appare scettico, ironico sul mestiere truffaldino degli aruspici, e quasi volterriano, laddove quando parla in pubblico non fa che apostrofare gli «dei immortali» quasi protagonisti remoti, e guida, e giudici, della politica.
Questa “doppiezza” fu propria dei ceti dirigenti del mondo classico, e passò “recta via” nella moderna cultura umanistica, giacché gli uomini della “Rinascita” proprio della parola di quegli antichi largamente si erano nutriti. Su una tale base, in condizioni storiche certo del tutto diverse, poté purtroppo anche germogliare l’elogio — che non suscita certo molta simpatia — della “dissimulazione onesta”. Elogio che nell’Italia dominata dal fascismo fu letto con sensibilità attualizzante.
In Cavour operano altre premesse. Vi è in lui schietta considerazione per il fenomeno religioso come tale. E quando perciò egli scrive che il recedere della chiesa dal suo potere temporale gioverebbe al cattolicesimo stesso non dà vita ad un sofisma capzioso, ma al contrario esprime il suo autentico pensiero.»
Luciano Canfora, Instrumentum regni. Religione e stato da Roma antica a Gramsci.