“Indagine su un sentimento” è il sottotitolo de “Il dono della malinconia”, quello che la scrittrice statunitense Susan Cain chiama “dolceamarezza, un filo che lega malinconia ed estasi. E quello citato è il “Preludio”, nella Traduzione di Manuela Francescon. “Ufficialmente ho cominciato a lavorare a questo libro nel 2006, ma in pratica ci lavoro da tutta la vita”, afferma l’autrice.
«Una notte ho sognato che dovevo incontrarmi con la mia amica, una poetessa di nome Mariana, a Sarajevo, la città dell’amore. Mi sono svegliata perplessa: Sarajevo, città dell’amore? Ma Sarajevo non è piuttosto il teatro di una delle guerre civili piú sanguinose della seconda metà del Novecento?
Poi mi sono ricordata. Vedran Smailović. Il violoncellista di Sarajevo.
È il 28 maggio 1992 e Sarajevo è sotto assedio. Musulmani, croati e serbi hanno vissuto insieme per secoli in questa cittadina di tram sferraglianti, pasticcerie, cigni che solcano laghetti nei parchi, moschee di epoca ottomana e cattedrali greco-ortodosse. Una città con tre popoli e tre religioni, dove fino a poco tempo fa nessuno aveva mai badato molto alle differenze. Sapevano chi era chi, ma non se ne curavano: preferivano vedersi come vicini che si incontrano nei caffè e nei ristoranti di kebab, frequentano le stesse
università e certe volte si sposano fra loro e mettono su famiglia.
E adesso, una guerra civile. Gli uomini appostati sulle colline che cingono la città hanno tagliato i cavi elettrici e interrotto la fornitura dell’acqua. Lo Stadio Olimpico costruito nel 1984 è andato a fuoco, il campo da gioco è stato convertito in cimitero di fortuna. I palazzi sono crivellati dai colpi di mortaio, i semafori rotti, le strade deserte. Si sente solo il crepitio delle mitragliatrici.
Ma all’improvviso in una stradina pedonale, all’altezza di una panetteria bombardata, hanno cominciato a diffondersi le note dell’Adagio di Albinoni.
(…) Tutt’intorno a lui i fucili sparano, le bombe esplodono, le mitragliatrici sventagliano. Smailović continua a suonare. Lo farà per ventidue giorni consecutivi, tanti quante le vittime dell’attacco alla panetteria. Miracolosamente non verrà raggiunto da nessun proiettile.
La città è racchiusa in una valle, circondata da alture dalle quali i cecchini mirano ai cittadini in cerca di pane. Molti aspettano per ore prima di attraversare la strada, poi passano di corsa come cervi inseguiti da un cacciatore. Eppure quest’uomo siede in una piazza, elegantissimo, come chi ha tutto il tempo del mondo.
Chiedete a me se sono pazzo a suonare il violoncello in mezzo a un campo di battaglia, sembra dire, perché non chiedete a loro se sono pazzi a bombardare Sarajevo?
… nella fase piú buia dell’assedio, altri musicisti ne traggono ispirazione e scendono in strada coi loro strumenti. Non suonano marce vivaci per dare coraggio ai soldati che combattono i cecchini, né brani pop per tenere alto l’umore della popolazione. Suonano l’Adagio. Il nemico attacca con bombe e fucili e loro rispondono con la musica piú dolceamara che conoscano.
Noi non combattiamo, dicono i violinisti; non siamo nemmeno vittime, rispondono le viole. Siamo solo esseri umani, cantano i violoncelli, solo esseri umani, imperfetti, bellissimi, affamati d’amore.
Sono passati pochi mesi. La guerra civile infuria ancora e il corrispondente estero Allan Little osserva una processione di quarantamila civili che emerge da un bosco. Hanno camminato per quarantotto ore di fila, in fuga da un attacco. Tra loro c’è un uomo di ottant’anni. Ha l’aria esausta e disperata. Il vecchio si avvicina a Little, gli chiede se per caso ha visto sua moglie. Si sono persi di vista durante la lunga marcia, gli spiega.
Little non l’ha vista, ma perfino lui che è un giornalista chiede all’uomo di identificarsi come croato o musulmano. La sua risposta (…) lo fa vergognare ancora a distanza di decenni. “Io sono un musicista”, ha detto.»
Susan Cain, Il dono della malinconia.