Un detto spagnolo recita: “un cane andaluso ulula, qualcuno è morto”. In una settimana Luis Buñuel e Salvador Dalì definirono, parlando e scrivendo, la sceneggiatura de “Un chien andalou” (“Un cane andaluso”, 1929), capolavoro del cinema surrealista (e non solo…). “Nel prologo del film, due mani sono impegnate ad affilare la lama di un rasoio. Le mani sono dello stesso regista… Si avvicina a una porta finestra, esce sul balcone e fissa lo sguardo verso la luna piena. Mentre la luna corre veloce verso una nuvola sottile, il regista, rientrato nella stanza, alle spalle di una donna seduta e impassibile, tenendole l’occhio sinistro ben spalancato con il pollice e l’indice disposti a cerchio, si appresta a reciderlo orizzontalmente. La luna e l’occhio sono sezionati contemporaneamente. Dall’occhio tagliato cola una goccia di sangue” (Alberto Cattini).
«Octavio Paz ha detto: “Basta a un uomo incatenato chiudere gli occhi per avere il potere di far scoppiare il mondo”. Io aggiungo parafrasandolo: basterebbe che la bianca palpebra dello schermo potesse riflettere la luce che le è propria per far saltare l’universo. Ma per il momento possiamo dormire tranquilli, dato che la luce cinematografica è accuratamente dosata e controllata. Nessuna tra le arti tradizionali manifesta una sproporzione così grande tra le possibilità che offre e le proprie realizzazioni. (…) In ogni film, buono o cattivo, al di là e malgrado le intenzioni degli autori, la poesia cinematografica lotta per venire a galla e manifestarsi. Il cinema è un’arma magnifica e pericolosa se è un spirito libero a maneggiarla. È lo strumento migliore per esprimere il mondo dei sogni, delle emozioni, dell’istinto. Il meccanismo creatore delle immagini cinematografiche è, a causa del suo funzionamento, quello che, fra tutti i mezzi di espressione umana, richiama meglio il lavoro dello spirito umano durante il sonno.
(…) “Ciò che vi è di più meraviglioso nel fantastico – ha detto André Breton – è che il fantastico non esiste, tutto è reale”. (…) Quanto sto dicendo non vi faccia credere tuttavia che io sia per un cinema esclusivamente consacrato all’esplosione del fantastico e del mistero, per un cinema che, fuggendo o disprezzando la realtà quotidiana, pretenda di sprofondarci nel mondo dell’inconscio e del sogno. Quantunque, proprio adesso e troppo brevemente, io abbia indicato l’importanza capitale che attribuisco al film che affronterà i problemi principali dell’uomo moderno, non considero quest’ultimo isolatamente, come un caso particolare, ma nei suoi rapporti con gli altri uomini. Faccio mie la parole di Engels, che definiscono così la funzione del romanziere (e, in questo caso, di un regista): “Il romanziere avrà adempiuto con onore alla sua funzione quando, attraverso la pittura fedele delle relazioni sociali autentiche, avrà distrutto la rappresentazione convenzionale della natura di queste relazioni, scosso l’ottimismo del mondo borghese e obbligato il lettore a dubitare della perennità dell’ordine esistente, anche se non ci propone direttamente una conclusione, anche se non prende apertamente partito”.»
Luis Buñuel, La palpebra bianca (1953), dal “Castoro” curato da Alberto Cattini.