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LE CITAZIONI: Bruni, “I miserabili”: l’ospitalità e il dono

by Ernesto Scelza
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Titola “”I miserabili”: la grammatica del dono. Il rischio dell’ospitalità” il capitolo che lo storico ed economista Luigino Bruni dedica al capolavoro di Victor Hugo nel suo recente “Viaggio economico nei capolavori della letteratura”.

 

«Il romanzo “I miserabili” si apre con un vescovo, monsignor Myriel, cui sono dedicate pagine straordinarie (…).

Alla sua porta, una sera d’inverno, viene a bussare il vagabondo Jean Valjean, appena uscito dal carcere di Tolone. Era stato rilasciato dopo diciannove anni di galera. Nella sua vita precedente era stato un potatore, e nella stagione della potatura “guadagnava ventiquattro soldi al giorno. Afflitto per l’impotenza di fronte alla fame dei sette bambini di sua sorella vedova – “la famiglia non ebbe pane” – un giorno finì per rubare una pagnotta da un fornaio. E così, nel carcere “vi era entrato cupo, ne uscì disperato”.

(…) Con questo odio e con questa indignazione Jean Valjean era giunto a Digne. In città viene riconosciuto come ex-galeotto e quindi cacciato dalle locande – non c’era posto per uno come lui nell’albergo. Finché, ormai rassegnato a dormire all’addiaccio e affamato, giunge alla porta di monsignor Myriel.

Il vescovo lo accoglie, apparecchia la tavola con le posate d’argento riservate agli ospiti di riguardo. E quando si rivolge a Jean Valjean chiamandolo “Monsieur”, Hugo ci dona una delle sue frasi più belle: “L’ignominia ha sete di considerazione”. Dopo questa cena fraterna, arriva la notte. Nella mente di Jean Valjean tornano i fantasmi dell’odio, della rabbia e dell’indignazione: quelle sei posate d’argento viste e usate durante la cena “l’ossessionavano”. Nel mezzo della notte e del conflitto interiore si alzò, si diresse verso l’armadio, quindi “ficcò l’argenteria nello zaino, (…) attraversò il giardino, saltò il muro come una tigre, e fuggì”. La mattina seguente, la domestica Magloire scopre il furto e avverte il vescovo; questi risponde con una prima considerazione che ci pone subito su un piano altro e diverso dal nostro: “Era nostra quella argenteria? (…) Essa apparteneva ai poveri. Chi era quell’uomo? Evidentemente un povero”. Mentre i due parlano, bussano alla porta: “Tre uomini ne reggevano un quarto per il bavero. I tre erano gendarmi, l’altro era Jean Valjean”. Ed ecco l’inatteso: “Ah eccovi, sono contento di vedervi. Come sarebbe? Vi avevo dato anche i candelieri d’argento (…): come mai non li avete presi insieme alle posate?”.

(…) Noi disapproviamo l’azione di Jean Valjean; ma l’esercizio empatico che ci fa fare Hugo non si conclude con la raccomandazione: “Non accogliete futuri Jean Valjean dentro le vostre case o, quantomeno, non mettete le posate d’argento”; termina invece aumentando in noi il desiderio imprudente di aprire una porta in più, almeno quella di casa nostra. Abbiamo smesso di leggere la Bibbia e I miserabili, abbiamo chiuso le porte e i porti ai nostri viandanti, siamo diventati noi i nuovi miserabili e non vediamo più l’innocenza di Jean Valjean, prima e dopo il furto dell’argenteria. Myriel ci sta allora insegnando cosa è veramente l’agape, cioè la forma dell’amore tipica dei cristiani. Arriva uno sconosciuto, forse un disperato, magari un dannato e subito diventa uno di casa, tiriamo fuori per lui le posate più belle, lo invitiamo alla tavola intima. Sappiamo bene, perché siamo esperti d’umanità, che quella vista luccicante dopo tanto dolore e cattiveria può diventare una tentazione invincibile per quel povero. Ma l’onore da donare all’ospite supera la paura della tentazione: non dobbiamo maledire ogni nuvola carica d’acqua per il ricordo dell’inondazione assassina.»

Luigino Bruni, Il campo dei miracoli.