La ricerca contemporanea ha da tempo liquidato la tradizione di un Savonarola che guarda al passato medioevale e un Niccolò Machiavelli anticipatore del moderno, derivata da Francesco De Sanctis e Luigi Russo. E il confronto con le loro visioni del mondo è vivo e produttivo. In questo passo, Gennaro Maria Barbuto, dopo avere misurato le affinità delle loro complesse e fascinose personalità ne sonda le differenze.
«Ma, ciò nonostante, persistono altrettante divergenze fra Machiavelli e Savonarola. Il profilo del Frate che emerge dalle pagine machiavelliane risulta ambivalente.
Una prima divergenza si potrebbe definire incompatibilità caratteriale. Machiavelli, che era un “bon vivant”, un grande amante delle donne (si pensa al suo rincrescimento per non essersi recato dalla Riccia a causa di un presunto profeta), era, per così dire, “naturaliter” antipiagnone.
Seconda divergenza e qui entriamo nel vivo del confronto fra due pensieri. Savonarola aveva elaborato una visione organicistica della “polis”, una compatta unità della città in ascolto della sua incandescente parola profetica, pur essendo consapevole delle resistenze e opposizioni che essa suscitava. Una visione organicistica collidente con quella conflittuale di Machiavelli e del suo rapporto consustanziale fra conflitto e unità, un conflitto unitario e un ordine conflittuale. E questo proprio perché, secondo Machiavelli che generalizza il “polemos” delle guerre d’Italia in cifra per la comprensione della storia e della stessa natura dell’uomo, il conflitto deve essere introiettato e reso virtuoso in una politica che non si illuda di esorcizzarlo e preservi l’unità grazie ad armi, religioni e leggi.
Infine, terza divergenza, che rende ancora più chiaro quanto il pensiero ossimorico di Machiavelli si allontani da quello di Savonarola. Quest’ultimo ammette che si possa fare male in vista del perseguimento del bene. Ma il male viene redento divinamente, viene legittimato da un piano provvidenziale del quale Savonarola si sente il profeta per la città di Firenze che deve diventare, non si stanca mai di ripeterlo, la nuova Gerusalemme.
Non così Machiavelli. Quando Machiavelli nel capitolo XVIII del Principe, il più urticante scandaloso, il capitolo del Centauro ossimorica figura vivente del principe fondatore e legislatore, esclama le terribili parole che il principe, per il bene dello Stato, “necessitato”, ossia quando una necessaria contingenza storica lo imponga, “deve entrare nel male”, sa che il male non viene redento. Per Machiavelli, il male resta male e non viene trasvalutato.
Fra il Domenicano e Machiavelli si apre una diversa visione della vita e del mondo. Al teocosmo di Savonarola si oppone il cosmomondo di Machiavelli, per il quale il furioso, eracliteo divenire domina la coscienza degli uomini e la loro storia e si può solo cercare di arginarlo dandogli una provvisoria, mai definitiva “forma” politica. Machiavelli, che ben sapeva quanto Savonarola avesse rappresentato l’esempio di un profeta-legislatore con il suo cristianesimo “virtuoso”, alla stessa stregua era ben consapevole del non colmabile divario fra la sua parola e quella del Frate, nonostante ne apprezzasse l’impeto politico di costruzione di una nuova città. Machiavelli poteva mostrarsi non pienamente repulsivo verso chi, come lui, si indignava per la presente imperizia politica italiana e la devastante corruttela, anzitutto dei principi e del papa, e si rivolgesse profeticamente, ma con accortezza realistica, al futuro.
Entrambi, in modi diversi, furono all’”altezza dei loro tempi nuovi”, segnati dalle guerre d’Italia, e capirono che la loro devastante novità esigeva di essere capaci di prospettare una visione per il futuro politico. Il Frate e il Segretario conoscevano la difficile arte di pronunciare una parola profetica, che sapesse scavare nella dura roccia del presente, e seppero “nova dicere et novo modo” (Savonarola) e “trovare modi ed ordini nuovi” (Machiavelli).»
Gennaro Maria Barbuto, Machiavelli e Savonarola. Essere all’altezza dei tempi e una visione per il futuro.