«Colui che vede sente (aisthanetai) di vedere, colui che ascolta sente di ascoltare, colui che cammina sente di camminare e così per tutte le altre attività vi è qualcosa che sente che stiamo esercitandole, in modo che, se sentiamo, ci sentiamo sentire, e, se pensiamo, ci sentiamo pensare, e questo è la stessa cosa che sentirsi esistere: esistere (tò èinai) significa infatti sentire e pensare. Sentire che viviamo è di per sé dolce, poiché la vita è per natura un bene ed è dolce sentire che un tale bene ci appartiene.
Vivere è desiderabile, soprattutto per i buoni, poiché per essi esistere è un bene e una cosa dolce.
Con-sentendo provano dolcezza per il bene in sé, e ciò che l’uomo buono prova rispetto a sé, lo prova anche rispetto all’amico: l’amico è infatti un altro se stesso (heteros autos). E come, per ciascuno, il fatto stesso di esistere (to auton einai) è desiderabile, così – o quasi – è per l’amico.
L’esistenza è desiderabile perché si sente che essa è una cosa buona e questa sensazione (aisthesis) è in sé dolce. Anche per l’amico si dovrà allora con-sentire che egli esiste e questo avviene nel convivere e nell’avere in comune (koinonein) azioni e pensieri. In questo senso si dice che gli uomini convivono e non, come per il bestiame, che condividono il pascolo. (…) L’amicizia è, infatti, una comunità e, come avviene rispetto a sé stessi, così anche per l’amico: e come, rispetto a sé stessi, la sensazione di esistere (aisthesis oti estin) è desiderabile, così sarà anche per l’amico.»
Aristotele, Etica Nicomachea, IX, 1170a -1170b (traduzione di Giorgio Agamben).