La filosofa e teorica della politica Hannah Arendt scrive “Verità e politica” nel 1967, in occasione delle polemiche seguite alla pubblicazione de “La banalità del male”: le corrispondenze per il “New Yorker” in occasione del processo in Israele a Otto Adolf Eichmann, uno dei comandanti delle SS responsabili dell’organizzazione della cosiddetta “soluzione finale”. La Arendt vi afferma che “la caratteristica essenziale del totalitarismo consiste nel fabbricare verità”. Il testo, del 1967, fu inserito nella seconda edizione di “Tra passato e futuro” (1968) e non uscì nella sua traduzione italiana, condotta sulla prima edizione del 1961. Per conoscerne il contenuto, si dovrà attendere il 2004, quando viene pubblicato da Bollati Boringhieri per la cura di Vincenzo Sorrentino.
«L’oggetto di queste riflessioni è un luogo comune. Nessuno ha mai dubitato del fatto che verità e politica siano in rapporti piuttosto cattivi l’una con l’altra e nessuno, che io sappia, ha mai annoverato la sincerità tra le virtù politiche. Le menzogne sono sempre state considerate dei necessari e legittimi strumenti non solo del mestiere del politico o del demagogo, ma anche di quello dello statista. Perché è così? (…) E che genere di realtà possiede la verità se essa è priva di potere nell’ambito pubblico, il quale, più di ogni altra sfera della vita umana, garantisce la realtà dell’esistenza agli uomini che nascono e muoiono, cioè a degli esseri i quali sanno che sono apparsi dal non-essere e che dopo un po’ scompariranno di nuovo in esso? Infine, la verità impotente non è forse disprezzabile quanto il potere che non presta ascolto alla verità? Si tratta di questioni scomode…
Ciò che rende questo luogo comune altamente plausibile può ancora essere riassunto nell’antico adagio latino: Fiat justitia, et pereat mundus (sia fatta giustizia, anche se il mondo può perire). A parte il suo probabile autore nel secolo XVI (Ferdinando I, successore di Carlo V), nessuno l’ha utilizzato se non come una domanda retorica: deve essere fatta giustizia se è in gioco la sopravvivenza del mondo? E l’unico grande pensatore che ha osato affrontare diversamente la questione è stato Immanuel Kant, il quale audacemente spiegò che “il detto proverbiale (…) in linguaggio semplice significa: la giustizia deve prevalere anche se come risultato dovessero perire nel mondo tutti i furfanti”. Dal momento che gli uomini trovano che non varrebbe la pena di vivere in un mondo completamente privo di giustizia, questo “diritto umano deve essere ritenuto sacro, senza considerare il sacrificio richiesto all’autorità costituita (…), senza considerare le conseguenze fisiche che ne potrebbero risultare”. Ma questa risposta non è forse assurda? La preoccupazione per l’esistenza non precede chiaramente qualunque altra cosa, ogni virtù e principio? Non è forse evidente che essi diventano delle mere chimere se è in pericolo il mondo, nel quale soltanto possono essere manifestati? Il secolo XVII non aveva forse ragione quando, quasi all’unanimità, dichiarò che ogni Stato ha il dovere di riconoscere, secondo le parole di Spinoza, che non esiste “nessuna legge superiore alla propria sicurezza”? Senza dubbio, ogni principio che trascende la semplice esistenza può essere messo al posto della giustizia, e se vi mettiamo la verità – sia fatta giustizia, anche se il mondo può perire – l’antico detto ci sembra ancora più plausibile. Se concepiamo l’azione politica nei termini della categoria mezzi-fine, possiamo anche giungere alla conclusione, soltanto in apparenza paradossale, che la menzogna può servire molto bene a stabilire o a salvaguardare le condizioni della ricerca della verità (così come ha indicato molto tempo fa Hobbes, la cui implacabile logica non manca mai di portare le argomentazioni a quegli estremi in cui la loro assurdità diventa evidente). E le menzogne, dal momento che sono spesso utilizzate come sostituti di mezzi più violenti, tendono a essere considerate degli strumenti relativamente inoffensivi all’interno dell’arsenale dell’azione politica.»
Hannah Arendt, Verità e politica.