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L’autonomia differenziata nelle infrastrutture e nei trasporti

by Pietro Spirito
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È nel calendario dei lavori del Senato della Repubblica, dal prossimo 16 gennaio, l’avvio della discussione del disegno di legge d’iniziativa governativa n. 615 e connessi sull’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione.

La Commissione Affari Costituzionali, martedì 21 novembre scorso, ne ha concluso l’esame conferendo mandato ai relatori, senatori Della Porta e Tosato, a riferire favorevolmente all’Assemblea sul disegno di legge n. 615, adottato come testo base, con le modifiche approvate.

L’autonomia differenziata nella versione del Ministro Roberto Calderoli si presenta come un variegato menu à la carte di un ristorante politico che intende scardinare l’unità nazionale: le regioni che aderiscono possono scegliere le pietanze più costose pagandole a prezzo di saldo di fine stagione.

Tra le tante portate che vengono generosamente offerte alla devoluzione sono presenti, in un catalogo di decine di materie, le grandi infrastrutture, i porti ed il sistema dei trasporti. Si tratta di una delle chiavi attraverso le quali la maggioranza di governo intende scardinare l’unità nazionale, valorizzando le diseguaglianze a beneficio dei territori più ricchi, ma alla fine penalizzando la competitività complessiva del Paese, perché riduce la capacità di preservare una visione di sistema sulle infrastrutture che assicurano la connessione sulle dorsali principali, a livello nazionale ed internazionale.

Beninteso, siamo in presenza oggi di un sistema che lascia già ampio spazio, nel governo delle infrastrutture e dei servizi di trasporto, all’intervento delle istituzioni territoriali. In particolare, sin dalla legge n. 422 del 1997, la gestione delle risorse per il finanziamento dei servizi di trasporto pubblico locale, che vale circa 5 miliardi di euro all’anno, è affidata alle Regioni, con un sistema di ripartizione sostanzialmente fondato sulla spesa storica.

Non si tratta dunque di una ondata di piena recente, ma della risacca di una trasformazione di lungo periodo, che ha già manifestato i suoi effetti nei decenni più recenti, sotto l’impulso di una moda culturale contraria ai poteri nazionali. Che sia poi la destra attualmente al governo a condurre l’offensiva terminale per marginalizzare i poteri centrali rispetto ai potentati locali è una delle tante contraddizioni di questa storia.

Per i porti di interesse nazionale e per le grandi infrastrutture esiste già una procedura di potere concorrente tra Stato e regioni. A partire dal 2001 in avanti, con la riforma della Costituzione in senso federale, è cominciato un processo che ha determinato uno slittamento dei poteri dal centro ai territori, anche nel settore dei trasporti che riguardano i collegamenti internazionali e nazionali.

Quel che va osservato, nel corso di questo periodo durato ormai quasi un quarto di secolo, è che si è affermato un neo-centralismo regionale: quando sono nate le città metropolitane, e tutto militava per assegnare le risorse del trasporto pubblico direttamente alla gestione di questa nuova istituzione, le Regioni si sono guardate bene dal seguire il criterio della sussidiarietà.

Comuni e città metropolitane sono state poste progressivamente ai margini dei processi decisionali, mentre, anche dal punto di vista delle caratteristiche storiche originarie della nostra azione, erano al centro nel processo di formazione della identità dei cittadini.

L’esperienza del federalismo delle infrastrutture e dei trasporti che abbiamo vissuto più recentemente ci restituisce dunque un modello asimmetrico, che ferma il principio della devoluzione alle porte dei palazzi regionali del potere. Insomma, la devoluzione vale solo nel senso della sottrazione di poteri allo Stato, ma si guarda bene dal trasferire responsabilità a città metropolitane e comuni.

Non è un caso che centinaia di sindaci dei comuni meridionali abbiano sentito l’esigenza di costituire una Associazione Sindaci del Sud Italia chiamata “Recovery Sud”, per esprimere contrarietà all’autonomia differenziata. Anche nel Nord andrebbe avviata una riflessione sulle conseguenze della devoluzione federalistica a geometria variabile, perché accentra poteri su una scala intermedia dando scacco matto simultaneamente al livello nazionale ed al livello decentrato più prossimo ai cittadini.

Ora, con l’ampiezza della devoluzione che viene prevista per le grandi infrastrutture, i porti, gli aeroporti, le principali vie di comunicazione si aprono nuovi fronti che indeboliscono ulteriormente la coesione e la forza del nostro Paese. Scomparirà innanzitutto la pianificazione nazionale, che oggi è resa possibile dal presidio centrale delle reti e dei servizi: il decreto ministeriale 30 novembre 2021, n. 481, e la legge sugli appalti, richiedono la definizione di meccanismi di programmazione che coordinino i sistemi di trasporto secondo una visione nazionale ed internazionale.

Nel 2023, con l’approvazione della ennesima riforma del codice degli appalti, all’articolo 45 si stabilisce che la pianificazione nel settore dei trasporti viene abolita. Il combinato disposto tra assegnazione alle regioni della titolarità decisionale su grandi infrastrutture e porti e cancellazione della pianificazione dei trasporti determina la perdita di un orizzonte ordinatore rispetto alle scelte di investimento che saranno effettuate. Cresce l’arbitrio del decisore politico regionale, mentre perde la visione della competitività nazionale ed internazionale nel sistema dei trasporti.

Devolute le infrastrutture ed i servizi di mobilità ai territori, la pianificazione, se ne resterà ancora traccia, sarà solo regionale: l’esperienza dei passati decenni sulla qualità dei documenti di pianificazione regionale non ci conforta verso un radioso futuro nel sistema dei processi decisionali sulle scelte in materia di infrastrutture.

Si apre poi un vulnus sugli investimenti: molti degli interventi sulle infrastrutture di trasporto, per la manutenzione straordinaria e straordinaria, sono basati su fondi di investimenti nazionali, che dovranno essere ripartiti. Ma non ci sarà problema: nascerà certamente una nuova Commissione Calderoli, che – nello spirito dell’armonia – si riunirà per trovare il corretto punto di equilibrio.

Sappiamo quanto sia oggi difficile realizzare gli investimenti delle nuove infrastrutture che mancano: mediamente impieghiamo undici anni nl processo di esecuzione. Domani, con l’autonomia differenziata, la situazione peggiorerà. Verranno meno due strumenti, che sono oggi nella disponibilità del livello nazionale: gli espropri e la dichiarazione di pubblica utilità si applicano agli investimenti su scala nazionale. Se scendiamo di un livello, e andiamo su una scala territorialmente più ridotta, sarebbe più difficile dimostrarne l’utilità generale, rendendo i conflitti giuridici più difficilmente gestibili.

Poi non sarà chiaro chi definirà e controllerà i criteri di sicurezza che i gestori delle reti e dei servizi dovranno seguire. A tale scopo sono oggi adibite istituzioni ed agenzie nazionali, che domani non avranno più titolo ad operare, quando le infrastrutture saranno devolute alle regioni.

Su aeroporti, ferrovie ed autostrade vigilano rispettivamente Enac, Ansfisa ed Anas: poiché le concessioni saranno di matrice regionale, alle stesse regioni saranno affidati i compiti di controllo. Ogni territorio avrà le sue regole di sicurezza, e tutti saremo più incerti sulla omogeneità di tali criteri.

Infine, il deficit competitivo che deriva dalla inefficienza logistica, oggi stimato pari a 40 miliardi di euro all’anno, troverà il modo di essere ulteriormente valorizzato. La frammentazione del governo logistico, derivante dalla disarticolazione delle infrastrutture in venti regioni, peggiorerà verticalmente le nostre performance, che invece richiederebbero una gestione maggiormente centralizzata ed unitaria.

In cambio, esploderanno nuovamente gli investimenti in infrastrutture inutili. Riprenderà finalmente vita il partito unico della spesa pubblica inutile. Pensate alla dannosa proliferazione degli interporti: ne abbiamo creati sinora 26, quando la legge originaria del 1990, basata sul Piano Generale dei Trasporti, ne individuava solo nove.

Domani ogni regione sarà libera di definire le priorità delle opere da realizzare. Tanto per fare un esempio, in Umbria si ragiona da qualche anno sulla necessità di realizzare tre nuove interporti. Sinora, dentro un disegno nazionale della rete logistica, questo progetto è stato sinora respinto dalla razionalità di un disegno nazionale.

Con il federalismo delle infrastrutture questa ed altre aberrazioni potranno avere legittimamente luogo. Nasceranno nuove cattedrali nel deserto, si moltiplicheranno cementificazioni inutili e nuovi percorsi di consumo di suolo di cui non abbiamo assolutamente bisogno.

Al ristorante della autonomia differenziata hanno già apparecchiato la tavola, hanno schierato in bella vista il menu, ed i commensali si affollano verso l’ingresso. Saranno gli interessi costituiti ad ingrassare, mentre le aree deboli, come il Mezzogiorno ed i territori interni del Nord, resteranno esclusi o vivranno condizioni di nuova marginalità.

Resteranno fuori dalla porta del ristorante, e quindi senza risposta, i bisogni emergenti, come la competitività delle imprese. Anche nelle grandi infrastrutture e nei trasporti rischiamo di perdere l’ennesima occasione che il PNRR ci ha offerto. Le Piccole Patrie delle infrastrutture avanzano.