Il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro costituisce lo spartiacque nella storia repubblicana del nostro Paese. Finisce lì, ben prima della caduta del muro di Berlino e della tempesta perfetta di Tangentopoli, il sistema dei valori che stava alla base della Prima Repubblica.
Al ritrovamento del cadavere di Aldo Moro nel portabagagli della Renault rossa in Via Caetani, segue una lunga ed estenuata stagione di declino, attraversata dalle pagine e dai memoriali di Moro che vengono ritrovati e diffusi con il contagocce, nei lunghi anni che seguono il suo assassinio. Una lunga striscia rossa passa per la morte dell’autore del falso comunicato numero 7 delle BR, di Mino Pecorelli e del Generale Dalla Chiesa.
I percorsi che conducono a quell’approdo sono descritti con acutezza e raffinatezza da Marco Follini nel suo libro “Via Savoia. Il labirinto di Aldo Moro”, La Nave di Teseo. In quella strada elegante e tranquilla era attivo lo studio di Aldo Moro, un luogo nel quale si alternava il silenzio della scrittura e il dialogo serrato della politica.
Lo statista democristiano viene descritto nella matrice profonda dei suoi valori, connaturati dentro l’esperienza politica che attraversa tutti i passaggi della vita pubblica nazionale dalla fine della Seconda guerra mondiale alla sua morte.
Il tempo e l’ansia erano i termini della sua contraddizione. Detestava la fretta. Diffidava di chiunque celebrasse la rapidità, la prontezza di riflessi, la disinvoltura.
La figura di Aldo Moro ondeggia tra i due estremi della filosofia politica definiti da George Orwell: “I pensatori della politica si dividono generalmente in due categorie: gli utopisti con la testa tra le nuvole e i realisti con i piedi nel fango”. Moro ambiva a non essere né l’uno né l’altro, per proporre sempre i suoi ragionamenti lunghi, avvolgenti, capaci di tracciare un orizzonte lontano.
La vita che si era scelto contemplava gli abissi della cancellazione e le vette del protagonismo. Navigava tra idealità e cinismo, nella piena consapevolezza delle tecniche politiche, ma sempre con l’ambizione di giocare a costruire un disegno, per la realizzazione del quale tesseva la sua fitta trama, costruita con attenzione maniacale, soprattutto puntando sulla maturazione e sul mutamento lento del pensiero degli avversari. “Del potere e della sua distribuzione non so che fare”, usava dire con una di quelle frasi che lasciavano di stucco i suoi interlocutori. Era soprattutto inquietato dall’uso spregiudicato del potere da parte di chi lo distorceva prevalentemente per inseguire fini di ambizioni personali.
Nei passaggi difficili che attraversò come protagonista comprese che anche l’ombra deve essere governata. Se si voleva che il buio non prevalesse del tutto, non bastava solo invocare la luce. Quando fu messo alla prova del governo comprese che non contavano soltanto le conquiste realizzate ma anche i pericoli sventati. Visse i difficili giorni del Piano Solo, con le tentazioni golpiste di pezzi dello Stato.
Nel decennio che lo condusse poi alla morte si dimostrò tra i più capaci a tenere l’orecchio verso i rumori che provenivano dalla foresta giovanile. La politica si allontanava dalla società, mentre lui sentiva anche di più l’esigenza di capire, di ascoltare, di includere. Dalle fabbriche, dalle scuole, dalle piazze stava emergendo una protesta sorda a cui il sistema politico prestava un orecchio distratto e preoccupato.
Per Moro la politica era letteratura, musica, esplorazione. Era umanità. Laddove gli altri irridevano la sua pretesa di governare gli eventi con le parole, lui sorrideva delle loro illusioni di poter fare a meno dei pensieri che quelle parole racchiudevano.
Proprio nella fase di rivolta giovanile e di ricerca degli equilibri politici più avanzati, i nemici di Moro si fecero più numerosi e più severi. Cominciava quella stagione in cui Aldo Moro trovò ascolto e comprensione più nel campo avverso che non nella sua casa di elezione. Per Pier Paolo Pasolini era l’unico politico democristiano al quale poteva essere assegnato un attestato di innocenza, forse anche per segnare la colpevolezza di tutti gli altri.
Diversi sono i passaggi della biografia che annunciano il terribile epilogo. Dieci anni prima della sua morte, in un colloquio personale con Padre Pio, si sentì dire che il suo futuro sarebbe stato segnato dal sangue, da tanto sangue.
Era ministro degli Esteri quando, in un viaggio assieme al Capo dello Stato, ebbe un colloquio bilaterale con il suo omologo, Henry Kissinger. Dopo il ricevimento serale, e dinanzi ad altre affermazioni piuttosto pesanti di inimicizia, si sentì male e dovette tornare in Italia di tutta fretta. Era un preannuncio di quelle ombre internazionali che gravano sulla storia del rapimento e dell’assassinio del Presidente della Democrazia Cristiana.
Mentre era intento a tentare di concludere l’ultima tela che aveva costruito, il compromesso storico, tutto si interruppe bruscamente con il rapimento di Via Fani. Senza quell’evento traumatico, il governo di unità nazionale non avrebbe ottenuto quel giorno il voto di fiducia. Le modalità di composizione del governo corrispondevano troppo agli equilibri tra le correnti democristiane ed il partito comunista si apprestava ormai a votare contro in Parlamento. Le Brigate Rosse, inconsapevolmente, furono le vere levatrici dl governo Andreotti, nato quasi cadavere.
La figura di Aldo Moro resta lì, ferma ed irriducibile testimonianza di una passione verso la politica che si fa vita concretamente vissuta per servire le istituzioni e gli ideali. Esattamente quell’approccio che si è smarrito da allora in avanti. Nelle sue lettere dal carcere disvela non segreti di Stato, ma meschinità di leadership ormai non più in grado di parlare alla società italiana. Con Aldo Moro scompare la politica.