Alessandro Bianchi e Bruno Placidi ci guidano nel dedalo del patrimonio non utilizzato, che può aprire una serie di opportunità per trasformare il volto dei nostri territori, anche in coincidenza con l’avvio del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che destina 2,8 miliardi di euro a tale finalità.
Nel libro “Rigenerare il bel Paese. La cura di un patrimonio dismesso e sconosciuto”, Rubbettino, 2021, innanzitutto si mette in chiaro il perimetro del concetto di rigenerazione urbana, che va utilizzato solo con riferimento a quegli oggetti su cui si interviene pe modificare il genere originario e conferirne un altro diverso.
La rigenerazione urbana deve andare di pari passo con la sostenibilità, sul piano economico, sociale ed ambientale. Lo sviluppo sostenibile trae le sue radici dal Rapporto Brundtland del 1987, che richiamava proprio i tre pilastri appena citati per perseguire una crescita attenta all’uso delle risorse esistenti.
E’ cominciato da allora un percorso lungo, condiviso nel 1994 nella conferenza delle città sostenibili di Aalborg, per giungere alla dichiarazione europea di Toledo nel 2010, nella quale, tra l’altro, si legge: “L’adeguamento degli edifici e il recupero fisico sono settori ad alta intensità di manodopera, e quindi rappresentano una potenziale fonte di nuovi posti di lavoro, che potrebbe aiutare ad assorbire i lavoratori disoccupati, in particolare quelli del nuovo settore della costruzione”.
La deindustrializzazione – che ha aperto vuoti nei territori e crisi nelle comunità – può costituire l’occasione per ripensare le funzioni urbane, per generare opportunità di sviluppo, per costruire interventi di politica economica adatti a contrastare le marginalizzazioni e le diseguaglianze che si sono determinate nei passati decenni.
Non va confusa la rigenerazione urbana con la riqualificazione e la messa in sicurezza del territorio. Riflettere sul tema della rigenerazione urbana, coniugandola con i punti di crisi, porta inevitabilmente a ragionare su città, territori, ambienti che, in tutto o in parte, non ci sono più, ovvero città, territori, ambienti che rischiano di scomparire. Quando la crisi è irreversibile e sono quindi necessari processi di profonda trasformazione, allora è necessaria la rigenerazione urbana.
Nel nostro Paese non sono ancora maturate le condizioni di contesto che possano favorire il riuso del territorio e dei beni abbandonati. Il quadro normativo restituisce una congerie di leggi, regolamenti, provvedimenti economici e fiscali, sia a livello nazionale che regionale e locale, nei quali si delinea una indeterminatezza che non aiuta a perseguire programmi coerenti di rigenerazione urbana.
Le dimensioni degli interventi possibili sono vaste, considerando l’articolazione del patrimonio in gioco; l’Istat stima che siano quasi 15 milioni gli edifici ed i complessi edilizi pubblici, di cui circa 750mila inutilizzati, ovvero in stato di abbandono. Un’altra stima, effettuata dal Cresme, stima che gli spazi abbandonati siano 1,5 milioni, uno stock enorme di capitale inagito, molta parte del quale si trova nelle periferie urbane e nelle aree interne del Paese.
La dotazione infrastrutturale della Difesa è pari a circa 5.000 immobili, di cui 1.500 sono stati dichiarati non più utili ai fini istituzionali. Sono circa 1.700 le stazioni ferroviarie inutilizzate, almeno altre 1.900 impresenziate. Le aree produttive dismesse si estendono per 9mila kmq, di cui 2,700 collocate in ambito urbano. I terreni di proprietà pubblica ammontano a circa 1,4 milioni di unità per complessivi 27,5 miliardi di metri quadrati.
L esperienze internazionali testimoniano casi di successo che vanno tenuto in conto per valutare le potenzialità dei programmi di rigenerazione urbana: pensiamo per città e territori da un lato ai casi di Bilbao e Glasgow, dall’altro alla Ruhr, un’area di 4.500 kmq comprendente 12 città.
La sola riqualificazione ambientale della regione industriale tedesca ha visto la partecipazione di 17 comuni che hanno costituito la società IBA Emscher Park. Nell’arco di dieci anni l’IBA ha realizzato oltre 100 progetti finanziati per il 40% da privati e 60% da Stato, Regione, Comuni.
Un orizzonte vasto si apre dinanzi ai nostri occhi, se saremo in grado di cambiare passo, assumendo la capacità di definire ed attuare programmi di rigenerazione urbana che possano ricucire quelle aree e quei territori di crisi che la vecchia industrializzazione ha consegnato all’economia urbana e rurale del nostro Paese.