Le parole sono importanti, ci ricordava qualche anno fa il regista Nanni Moretti. Nel suo recente libro Carlo De Benedetti parla di “Radicalità, il cambiamento che serve all’Italia”, i Solferini, 2023. Stupisce che un vecchio capitalista utilizzi un termine diventato ormai desueto nel linguaggio politico del nostro Paese. Chi si azzardava a proporre soluzioni radicali, veniva subito bollato come un inguaribile utopista. I tempi sono davvero cambiati, evidentemente.
Ma perché Carlo De Benedetti propone questa scelta di campo così netta, così desueta, sdoganando un approccio che sembrava destinato a restare nella soffitta delle ideologie desuete? La morte delle passioni è la prima delle ragioni che lo spinge a questa scelta. La politica non sembra avere più una ambizione trasformativa e propositiva.
Il termine radicalità viene usato nella sua radice etimologica, intendendo un cambiamento alla radice. Insomma, l’opposto della continuità, dei timidi approcci tattici dell’esistente, e anche l’opposto della celebre strategia enunciata dal nipote del principe di Salina, nel Gattopardo, del cambiare tutto perché nulla cambi.
Ci troviamo, secondo Carlo De Benedetti, in un vicolo cieco, se ragioniamo e operiamo in continuità. Non bastano più piccoli aggiustamenti del sistema. Purtroppo, dell’approccio radicale che serve non c’è traccia. Anche perché siamo afflitti da una classe dirigente di scarsa o di nulla qualità e di poco coraggio. Sinora, la sinistra non è all’altezza della sfida della radicalità che oggi si pine con forza di fronte a noi.
“Sono maturi i tempi per un nuovo socialismo, radicalmente ambientalista, che riparta dai temi del lavoro e della sostenibilità per riconquistare un popolo perso nelle nebbie dello scontento”: questa è la tesi, e l’auspicio che De Benedetti sviluppa nel suo libro.
Per andare verso questo approccio radicale esistono le ragioni profonde che non solo risiedono nella storia recente degli ultimi decenni nazionali. La china discendente su cui oggi si trova l’Italia si inclina sempre più a causa di due grandi minacce che stanno erodendo non solo la nostra, ma tutte le democrazie: le crescenti diseguaglianze e il disastro ambientale.
Tra il 2020 ed il 2022 i dieci uomini più ricchi del pianeta hanno più che raddoppiato il loro patrimonio, che ora ammonta a sei volte quello del 40% più povero (3,3 miliardi di persone). In Italia vivono in povertà assoluta 2 milioni di famiglie (5,6 milioni di individui), mentre è a rischio povertà un italiano su quattro.
Il World Economic Forum di Davos 2023 è stato aperto da un rapporto di Oxfam che si intitolava “Survival of the richest” e sosteneva che si è ormai affermato un nuovo darwinismo, la “sopravvivenza del più ricco”. Di conseguenza occorre ripensare il sistema di tassazione, per redistribuire progressivamente la ricchezza e ridurre l’estrema diseguaglianza che si è creata. Un giusto carico fiscale dovrebbe portare a un dimezzamento del numero di miliardari nel pianeta entro il 2030. Una tassazione del 2% sul patrimonio di Bernard Arnault, proprietario di Lvmh, basterebbe a ripianare il deficit del sistema pensionistico francese.
Carlo De Benedetti propone l’introduzione della tassa patrimoniale, ricordando che lui stesso la pagava, come cittadino svizzero, nella misura annuale dello 0.9% del patrimonio. In fondo, si tratta del principio costituzionale di far contribuire di più a chi possiede di più. Uno scandalo in un Paese nel quale solo l’1,3% dei cittadini dichiara un reddito superiore ai centomila euro all’anno. Sono idee radicali, però, E le deve ricordare un ricco capitalista.
Intanto in Italia, ce lo dice Legambiente, il 2022 ha visto un aumento del 55% degli eventi climatici estremi, mentre le inondazioni hanno sommerso vaste zone del Pakistan e dell’Australia orientale. Secondo uno studio di Science, entro il 2100 perderemo la metà dei ghiacciai mondiali, con conseguenze climatiche rovinose. Secondo l’economista giapponese Kohei Saito, la crisi climatica è “una manifestazione della produzione capitalistica.
In Italia la progressione nel consumo di territorio è allarmante, ne perdiamo in media circa 2 metri quadrati al secondo: il cemento ormai copre oltre il 7% del Paese, con un’accelerazione che ha segnato il picco decennale nel 2021. Dobbiamo prendere atto che il nostro consumo di territorio non è stato dettato dalla fame, ma dall’ingordigia. Però le carceri restano in uno stato di penoso abbandono, al di sotto delle condizioni minime di dignità.
Un piano di risanamento nelle condizioni di carcerazione sarebbe un requisito per un minimo livello di civiltà. Di converso, secondo una indagine di Federcasa, disponiamo di un patrimonio di edilizia popolare tra i più vecchi d’Europa, che dagli ultimi dati conta oltre il 74% degli edifici costruiti prima del 1981 e per il 76% in zone ad alto rischio sismico.
Che disegni radicali siano affidati alle parole ed agli scritti di un vecchio capitalista dovrebbe far riflettere. Siamo giunti ad un crinale della storia che non può essere gestito con misure annacquate. Bussano alle porte enormi difficoltà, che si traducono in una diseguaglianza intollerabile ed in una crisi climatica che avanza velocemente, più di quanto non immaginiamo. Serve coraggio, e passione.