Foto by Acqua Campania SpA
Poco più di tredici anni fa, il 12 e 13 giugno 2011, si votò per l’abrogazione parziale della norma che stabiliva la modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici e la determinazione della tariffa per l’erogazione dell’acqua. L’obiettivo dei promotori del referendum era impedire che la gestione delle risorse idriche fosse affidata ad aziende private, passando invece a un modello in tutto e per tutto pubblico, con tariffe di erogazione del servizio più eque per tutti, annullando il profitto su questo bene fondamentale.
In vista della consultazione, i movimenti del forum Acqua Bene Comune avevano portato avanti una massiccia campagna popolare di mobilitazione, in cui il referendum era stato prontamente ribattezzato “Referendum sull’acqua pubblica” a sottolineare una forma di resistenza di massa contro la liberalizzazione dei servizi pubblici essenziali. I cittadini votarono in modo largo per le ragioni del mantenimento della gestione dell’acqua in mano pubblica. Poi è cominciata la rimonta istituzionale e decisionale verso la privatizzazione.
Qualche settimana fa, proprio mentre montavano le polemiche con il governo centrale su molteplici fronti, il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, sul modello di gestione delle acque si è pienamente allineato con l’esecutivo delle destre, nonostante che in altre materie, ed in particolare sulla gestione dei fondi comunitari di coesione, permanga il tracciato di rotta di collisione totale con la maggioranza di Giorgia Meloni.
Con la delibera regionale n.399 del 25 luglio scorso la Giunta della Campania ha approvato la costituzione della Società “Grandi reti idriche campane S.p.A.”, che gestirà il trasporto ai punti di distribuzione. Il 51 per cento delle quote della nuova società sarà in mano alla Regione e il 49 per cento ai privati: la selezione del socio avverrà, attraverso gara d’appalto. Tutto questo avviene nella regione del Sud più ricca d’acqua.
L’atto deliberativo n. 399 del 25/07/2024, esecutivo dal 01/08/2024, adottato dalla Giunta regionale della Campania, è sottoposto alla consultazione preventiva rispetto alla discussione dello stesso da parte del Consiglio Regionale della Campania. I soggetti interessati (cittadini, imprese, associazioni, società civile) possono far pervenire le proprie osservazioni e proposte rispetto alla documentazione in consultazione entro il 16/09/2024.
Nella Relazione Illustrativa della deliberazione, la decisione di scegliere la forma della partnership mista pubblico privata è stata ritenuta la forma più idonea per assicurare adeguati livelli di efficacia, efficienza ed economicità del servizio. In questo modo si consentirebbe alla Regione Campania, da un lato, di poter esercitare la funzione di controllo regionale sugli indirizzi ai quali improntare l’esecuzione del servizio e la realizzazione dei relativi investimenti e, dall’altro lato, di avvalersi di un operatore privato di comprovato know-how tecnico, commerciale e finanziario necessari per una gestione di tipo industriale del servizio di interesse economico generale in argomento.
Se guardiamo al piano di investimenti necessario per lo sviluppo della rete degli acquedotti primari in Campania, secondo le informazioni contenute nella Relazione Illustrativa della deliberazione, emerge più di qualche dubbio sull’equilibrio nella contribuzione tra socio pubblico e privato. Sono già previsti, ancor prima che venga formalizzata questa scelta di modello gestionale, finanziamenti pubblico per 1.253,7 milioni di euro, cui si aggiungono, sempre a carico della Regione, 1.029,8 milioni di euro durante l’arco di piano, per un totale pari a 2.283,5 milioni di euro.
A carico della società mista, per gli investimenti, restano 1.029,3 milioni di euro, che però vanno ripartiti al 51% al carico del socio pubblico. L’onere degli investimenti per il privato è pari quindi a circa 515 milioni di euro: questo valore equivale a poco più del 15% del totale delle risorse che il piano prevede come volume finanziario necessario per lo sviluppo del sistema.
In buona sostanza, come è anche normale che sia, gli investimenti per la rete primaria di grande adduzione della Campania sono a carico delle istituzioni pubbliche. Viene però francamente meno uno dei criteri cardine per scegliere la formula della società mista pubblico privata, vale a dire l’apporto finanziario del privato per ridurre l’onere a carico della Regione per la realizzazione degli investimenti.
Il privato, con poco più del 15% di apporto finanziario al piano degli investimenti, accede al 49% dei dividendi per i profitti nella gestione. Veniamo al punto relativo alla scelta del modello proprietario del soggetto gestore della rete primaria di adduzione del ciclo delle acque in Campania.
Per quanto riguarda il finanziamento del servizio idrico integrato, la legge italiana adotta il criterio della full cost recovery, inteso a coprire tutti i costi tramite la tariffa che il cittadino paga direttamente nelle mani del gestore concessionario. La legge prescrive a questo fine l’installazione generalizzata di contatori individuali.
Come dovrebbe essere intuitivamente evidente, la regolamentazione alla base della tariffa per il consumo di acqua neutralizza il rischio di impresa, e dovrebbe essere chiaro il rischio di affidare ad un privato un meccanismo di questa natura: rientrerebbe in quella che John Mainard Keynes avrebbe chiamato la “trappola del redditiero”.
Le grandi reti di trasporto d’acqua, di particolare rilevanza nelle regioni meridionali, rientrano indirettamente nello stesso meccanismo, in quanto vendono il proprio servizio a società di distribuzione che sono poste in una programmatica condizione di equilibrio economico senza rischio.
Ogni attività di gestione e di investimento svolta dal gestore del servizio idrico per la manutenzione e per lo sviluppo delle reti è coperta dalla tariffa, ivi compresa la copertura dei debiti che i precedenti gestori abbiano assunto per impianti e opere idriche, ed ogni costo finanziario e di remunerazione del capitale investito; saranno inoltre inclusi nella tariffa gli investimenti in futuri impianti di fognatura e depurazione laddove questi non siano ancora esistenti o funzionanti.
Ai sensi della disciplina di settore, ed in particolare gli articoli 14 e seguenti del D.lgs. n. 201/2022, le forme ordinarie di gestione dei servizi pubblici locali di interesse economico generale sono tre: l’affidamento mediante procedura ad evidenza pubblica, l’affidamento a società mista pubblico-privata, il cui socio privato deve essere scelto con procedura ad evidenza pubblica, l’affidamento a società in house, mantenendo il controllo pubblico.
La Campania ha scelto per la gestione della rete primaria di adduzione delle acque, la seconda strada, vale a dire la costituzione di una società mista pubblico privata. Non tutte le Regioni sono andate nella direzione di adottare questo modello. La Regione Puglia ha imboccato una direzione opposta, che sancisce la gestione pubblica dell’Acquedotto Pugliese, consentendo l’ingresso dei Comuni nel capitale sociale dell’azienda. Avverso a questa decisione il Governo ha impugnato la delibera pugliese, anche a seguito del parere dell’Autorità Garante della Concorrenza del Mercato, che ravvede un ostacolo alla concorrenza e, quindi, un indirizzo contrario alle norme comunitarie.
Ancora una volta la legge Galli “Disposizioni in materia di risorse idriche” viene interpretata, invece che applicata, nella gran parte dei casi in cui si adotta un modello di privatizzazione. Nella legge è scritto da un lato che l’acqua è un bene pubblico e dall’altro che tutte le acque, superficiali e sotterranee, sono pubbliche e utilizzate secondo criteri di solidarietà.
Sulla gestione delle acque incombe il rischio strategico costituito dai cambiamenti climatici. La crisi idrica è stata puntualmente anticipata nei Rapporti del Gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (IPCC), nelle analisi dell’Agenzia Europea per l’Ambiente, nelle ricerche di REF, nella certificazione degli Osservatori Distrettuali Permanenti per gli Utilizzi Idrici. L’Italia è al centro di un “hotspot” del cambiamento climatico. Hot-spot vuol dire che il riscaldamento globale si manifesta con impatti maggiori per gli ecosistemi e le popolazioni che vi risiedono.
Nei prossimi anni l’Italia apparterrà sempre più, a un’area climatica assai prossima a quella di paesi come Siria, Iran, Iraq, Tunisia, che stabilmente vivono con scarse risorse di acqua. Secondo l’European climate risk assessment l’Italia sarà esposta ad alti rischi, in termini di aumento delle temperature medie, frequenza delle ondate di calore e cambio del regime delle precipitazioni, che si fanno meno frequenti, più abbondanti e concentrate nello spazio, con conseguenti fenomeni emergenti di alluvione e siccità.
Privatizzare un bene comune come l’acqua, che sta per diventare una risorsa scarsa capace di generare crescenti extraprofitti, può mai costituisce una scelta a tutela dell’interesse generale? E può mai configurarsi la gestione delle acque un mercato liberalizzato, considerato che le sue caratteristiche di monopolio saranno ulteriormente valorizzate dalla tendenziale scarsità di questo bene pubblico?
L’acqua è una criticità che sta diventando mondiale. Il 90% delle risorse idriche nel mondo sono consumate tra quello che ci serve per allevamenti e coltivazioni, e quello che usiamo per produrre gli alimenti trasformati. Solo l’agricoltura, ne assorbe il 70%. Intanto, 2 miliardi di persone nel mondo vivono in zone ad elevato stress idrico, ossia con difficoltà ad accedere all’acqua, tanto che l’Onu prevede che entro il 2030 la siccità provocherà oltre 700 milioni di migranti. Nel corso del secolo scorso i consumi mondiali di acqua dolce sono aumentati di quasi 10 volte.
Il consumo medio annuo pro capite varia in modo sostanziale dalle regioni più sviluppate (1.200 metri cubi) a regioni del Sahel in Africa (120 metri cubi). Con l’inefficienza dei sistemi di irrigazione viene perduto circa il 60% dell’acqua. Sempre attraverso una distribuzione inadeguata, si perde il 36% dell’acqua disponibile per usi industriali e urbani. A questo si aggiungono problemi di siccità, cambiamenti climatici, deforestazione e di inquinamento delle falde acquifere. La produzione agricola crolla, i prezzi aumentano verticalmente, l’inflazione comincia ad impennarsi deteriorando il potere d’acquisto dei cittadini.
Certo, non possono essere lasciate senza risposta tutte le inefficienze che caratterizzano il settore della gestione delle acque in Italia, ed in particolare nel Mezzogiorno. Occorre dare risposta in tutti i segmenti nei quali si articola l’offerta: agricoltura, allevamenti, industria, cittadini residenti, servizi collettivi.
Solo il 4% dell’acqua piovana è raccolta negli invasi. Il settore agricolo incide per il 60% sul consumo di acqua, ma riutilizza solo il 5% delle acque depurate. Un organismo pubblico come l’EIPLI, Ente per lo Sviluppo dell’Irrigazione e la Trasformazione Fondiaria in Puglia, Lucania ed Irpinia, che per fini istituzionale gestisce le dighe e le infrastrutture idriche di approvvigionamento nel distretto dell’Appennino meridionale, è in liquidazione da più di dieci anni. Quali sono le conseguenze di questo assetto? Zero investimenti e zero manutenzione. Negli invasi, si trattiene circa un terzo della capienza. Un assurdo nel tempo della siccità e della penuria di acqua al Sud.
Occorre prendere atto che l’acqua dolce per uso potabile rappresenta meno di un quinto dei prelievi di acqua e, che la restante quota viene utilizzata in agricoltura, negli allevamenti e nell’industria. Gran parte dell’acqua utilizzata in agricoltura e industria è prelevata dall’ambiente, senza misurazioni e controlli, con pozzi o prelievi spontanei dai fiumi, e a costi comunque irrisori. Sino a quando questo sarà consentito e tollerato, ogni iniziativa per disciplinare e regolamentare i prelievi di acqua è destinata a fallire.
Andrebbero osservate ed analizzate le esperienze positive di paesi come India (1985), Cina (1954) o Australia (1971), che hanno istituito un ministero dell’Acqua, a cui è demandata la responsabilità di gestire la risorsa idrica, disciplinarne l’accesso, definirne un costo d’uso coerente con il valore dei suoi diversi impieghi.
Servirebbe un disegno nazionale di pianificazione per attuare le pratiche di adattamento ai cambiamenti climatici, accelerando la realizzazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza e le iniziative del Piano nazionale di interventi infrastrutturali e per la sicurezza del settore idrico. Va comunque sottolineato che sono insufficienti gli stanziamenti del PNRR per il settore idrico, meno di un quarto rispetto al fabbisogno minimo.
Ogni italiano ha un’impronta idrica complessiva (ossia derivante dal consumo di prodotti agricoli e industriali, sommati all’uso dell’acqua a livello domestico) pari a 6.300 litri giornalieri circa (pari a quasi 700 casse da 6 bottiglie di acqua da 1 litro e mezzo o di 42 vasche da bagno).
Eravamo abituati ad una età della abbondanza e dello spreco, per le risorse idriche e per i prodotti agricoli. Non possiamo più permettercelo. Dobbiamo reinterpretare il nostro modello di consumo, per dare un contributo concreto alla sostenibilità ed alla transizione.
Dovremo affrontare comunque temi complessi, e lo potremo fare solo a condizione che il grado di consapevolezza sulle questioni ci induca a partire dai nostri stessi comportamenti, prima di continuare a gettare il pallone in tribuna, invocando la responsabilità esclusiva delle istituzioni. Prima lo faremo e meglio sarà. Questa rivoluzione è l’unica che potrà indurre la politica a cambiare passo. La scorciatoia della privatizzazione non appare assolutamente una soluzione capace di indirizzare i comportamenti necessari per la tutela degli interessi collettivi.
Nel vuoto della iniziativa pubblica, e nella inefficienza delle soluzioni gestionali che sino ad oggi sono state determinate, si stanno incuneando gli investitori privati, ben consapevoli delle enormi opportunità di profitto che si aprono considerata la scarsità della risorsa acqua, e degli enormi spazi di ottimizzazione rispetto alle inefficienze della gestione pubblica dei decenni passati.
Esiste però l’esperienza internazionale sulla privatizzazione della gestione delle acque. Un anno fa il quotidiano inglese Guardian evidenziò i danni fatti all’ambiente dalla gestione di BlackRock, Vanguard, JP Morgan, con disservizi ed aumenti di tariffe, ma poderosa distribuzione dividendi agli azionisti. Sarà quest’ultima la ragione per la quale la recente delibera della Regione Campania desta l’interesse così vivo degli investitori privati.