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“La pioggia e il vento” (III)

terza parte

by Lucia Severino
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L’Autrice, scomparsa da tempo, artista, scrittrice, combattente per la libertà nell’Italia del nord, ultimò queste pagine negli anni ’70 del secolo scorso.

(Segue da: https://www.genteeterritorio.it/la-pioggia-e-il-vento-i/https://www.genteeterritorio.it/la-pioggia-e-il-vento-ii/)

 

Le parti invertite. Vivere qui, in questa città che pur amo non necessariamente per questo, è come vivere in una casa che serba le tracce di un’altra esistenza.

Non sono che un’eco; le fughe, i tradimenti, il nazismo latente, la stessa innocenza non vissuti a pieno.

E sono già fuori nell’argilla del fossato, la notte un lungo spavento di cui trascino il ricordo sotto il sole. Non m’hanno spinto né sono rotolata per caso, e nessuno ascolta la voce di chi ha voluto condannarsi come nessuno ascolta – se non per precisi interessi – i lamenti dei pazzi. Parlo a me stessa, e forse neanche.

 

Rosso azzurro ed oro, figure di una mitica giostra, sotto le maschere vittoriane che coronano il gioco rigide come idoli aztechi, ci rincorriamo fino al suono del campanello, quando è ora di cedere il posto a chi è ansioso di impietrirsi su un cavallo di cartapesta in illusione di movimento.

 

Odore di foglie bruciate in quell’orribile agosto ai Camaldoli. E l’intreccio delle felci sugli argini che attirava nella monotona complessità del disegno, nel suo moto sempre eguale eppure irripetuto finché l’eternità prendeva la forma di un verde cancorrente su un tappeto di sole.

San Martino, odore di foglie bruciate. I panni stesi si alzano nel vento, i gerani al davanzale cedono con pause immisurabili.

 

Saltino. Il gran campo di fieno. Inchiodati a terra, le mani aperte fra gli steli per un discorso assurdo guardiamo il cielo bianco che pesa sulle cime degli abeti. Odore di foglie bruciate.

A sera, le farfalle nei vetri. Le parole dei morti come farfalle nei vetri alimentano preziosi fili di gioia.

 

Se dipingo o scrivo è solo perché del nulla che è il mio segno non riesco ancora a dolermi.

Mi vedo come uno di quei parenti al letto del morente che non sanno raccogliere le ultime parole perché tutto il loro sforzo si concentra nel volere che la cosa orribile si compia al più presto. Il morente è questa cosa improbabile che chiamo IO.

 

Non guardare il corpo impazzito, non cercare mani che ci tengano, il limite dovrebbe essere facile a varcarsi più di quello del concepimento.

 

Mio padre, le braccia sul lenzuolo rami bianchi; l’antico sorriso arguto lascia alle tempie una ruga che sempre s’affonda come se la notte, nel finto silenzio della corsia, lo forzasse ogni volta ad un nuovo riso di sé.

 

Accettare che questa ribellione è priva di senso, fosse pur quello della negazione di sé. E se non fosse?

 

I cumuli di argilla angeli immensi. Nell’alba sembrano mettere ali come gemme. Il rumore delle macchine, quando si arresta ti si spegne il cuore.

Il vento lacera il fumo ai fili, oltre il muro le gialle fiorite scolorano in campi opachi. La cava tace. A notte la cava tace, l’azzurro grembo arato. I rospi splendono nella notte come amuleti.

 

Come come come. Non ho preoccupazioni di avanguardia.

 

Ti saluto solitario senza sesso né nome che vivi in questa carne.

 

La lepre è allo scoperto. Mandorle di angeli accecati il mezzogiorno.

A Versailles ride l’ostrica nel cerchio del paralume, un giardino si iscrive a tradimento con erba di inferriate.

 

La forma assurda della coperta ripiegata, L’ago, i fili. I pezzetti di marmo canticchiano nella tasca del cappotto. Giove non ha avuto pietà; non è servito portar fiori al suo altare, i fiori viola dai petali leggeri come di papaveri che sulla pietra non si vedono nemmeno.

Piccoli ridenti occhi di pioggia sui gradini. Oltre l’arco il campo dei giochi, verde come il cuore di una foglia.

 

La valle grigia di pioggia, colma di mandorli e peschi in fiore. Allo slargo che fa la strada di Delfi davanti al tempio di Apollo uomini e donne vestiti di nero stanno seduti sotto un grande albero. Ogni tanto dl gruppo esce uno sguardo come una luce tirata da una pietra

Alle spalle il suo silenzio.

 

Nessun gesto è possibile, nessun gesto è stato mai osato, niente è mai veramente accaduto.

 

Le luci diseguali grondano nel Tamigi, gatti neri sui tetti mimano le cimase, i minuti rotolano dentro e fuori delle loro grida di bambini come un fregio di desideri.

Perché distruggere il giardino dei ciliegi?

O augurata pace del ritrovamento a cui manca un gesto sempre, una sfumatura, il niente inequivoco da ricordare domani.

 

Due tavoli di marmo sotto una pergola, lampadine su un cavo fra muro e muro. Il cielo è viola sul Licabetto. Un bambino con occhi neri e guance rosa acceso come un piccolo Gesù bizantino porta ulive nere e vino resinato.

Saremo ancora accolti da parole alle porte del tempo, saranno lì puntuali a rivestire la nostra nudità come è avvenuto alla nascita?

Sono ancora a quel bivio di montagna e la sera si fa rosa sull’Eubea. Gli eventi mi si accumulano intorno come oggetti.

(continua)