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La luce quieta del gigante nel bailamme dei partiti

by Luigi Gravagnuolo
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Il dato più eclatante è la scissione del M5S, che ne certifica contestualmente il de profundis. Ma non è che agli altri le cose vadano granché bene.

Il risultato dei ballottaggi ha senza dubbio segnato una botta di vita per il centrosinistra, per il Pd in particolare; ma due settimane fa, al primo turno, le cose non erano andate alla grande, tutt’altro. Il Pd era risultato il primo partito nazionale, ma la coalizione di centrodestra era risultata vincente al primo turno in 9 capoluoghi di provincia sui 26, tra i quali i Capoluoghi di Regione Genova e Palermo, contro i soli 4 sindaci del centrosinistra, che poteva tuttavia vantare un significativo colpo a Padova. I tredici capoluoghi di provincia che sarebbero andati al ballottaggio vedevano le due coalizioni grosso modo partire appaiate. Al ballottaggio, come si è già accennato, il centrosinistra ha ben recuperato, ma gli altri non hanno fatto proprio cilecca. A conti fatti, tra primo e secondo turno, sui ventisei capoluoghi nei quali si è votato, il centrosinistra ne ha conquistati 10, il centrodestra 13 e tre hanno visto prevalere candidati civici. Comun denominatore in tutte le città: l’astensione.

Alla luce di tanto proviamo ad abbozzare alcune considerazioni.

1. La vittoria del centrodestra al prossimo voto politico, prospettata per certa da tutti i sondaggi fino all’altro ieri, non è affatto scontata. Nel centrodestra la leadership sta passando, con incedere lento ma sicuro, da Salvini a Giorgia Meloni. Lei si era cacciata in un vicolo cieco tenendosi fuori dal governo ed autocondannandosi così al sicuro destino della perdente di successo. È stata poi bravissima a cogliere la palla al balzo della guerra russo-ucraina per fare la mossa del cavallo. D’incanto si è tolta di dosso l’immagine della casinista no-vax, alla quale non gliene va bene mai una, ed ha assunto la fisionomia della statista affidabile, una che è capace di mettere da parte gli interessi di bottega per il bene della patria. Non so se le basterà per arrivare a Palazzo Chigi, il tempo residuo è poco e, per il momento, la sua crescita elettorale consiste nell’assorbimento dell’elettorato in uscita dalla Lega di Salvini piuttosto che nell’allargamento dell’area del consenso dell’intero centrodestra. E lei potrebbe raggiungere il traguardo solo se trainata dalla coalizione, la quale ormai si tiene con lo scotch. Per parte sua il campo largo del centrosinistra è minacciato dallo squagliamento del M5S, dei cui profughi il Pd finora riesce a recuperare poco e nulla. Decisivo sarà dunque l’orientamento del centro-centro: dove esso metterà il peso, lì penderà la bilancia.

2. Il M5S è alla maionese impazzita, chi fugge di qua, chi di là, tutti alla ricerca di una collocazione ‘sicura’ in qualche lista – cosa che nessuno potrà loro offrire – e tutti insieme a mangiarsi le mani per aver ottenuto in questa legislatura, quella in cui erano riusciti finalmente a mettere piede nella casta, la grande vittoria-harakiri della riduzione di un terzo del numero dei parlamentari. Dei vari gruppi della diaspora pentastellata quello che sta messo peggio è quello che ancora si riconosce nel simbolo e nel nome del M5S ed è capeggiato da Giuseppe Conte. Né carne, né pesce, dall’identità pirandelliana, questa formazione allo stato non ha speranza. Ci sono poi i manipoli dei vari Di Battista e Paragone, che tentano di riesumare l’originaria vocazione antisistema del MoVimento. Forse, se si aggregassero tra loro, qualcosa potrebbero racimolare nelle urne; soprattutto sarebbe utile per la vita democratica se la grande area del rancore sociale trovasse una sua tribuna nel Parlamento della Repubblica, ma tutto dipenderà dalla legge elettorale. Resta lo spezzone guidato da Luigi Di Maio, che si è dato per nome Insieme per il Futuro. Le dichiarazioni del Ministro degli Esteri nel giorno della rottura col MoVimento – antipopuliste, antisovraniste, di inequivoca adesione all’euroatlantismo e di esplicita accettazione della leadership di Mario Draghi – collocano questa nuova formazione politica nella sfera del centrismo e dicono di una maturazione politica ormai irreversibile. È un bene per il nostro Paese, ma la sua forza è ancora un rebus.

3. Il centro-centro appunto. Finora è una costellazione di piccoli satelliti che ruotano attorno ad un pianeta che non si vede ma c’è, o quanto meno se ne avverte l’esigenza. Restano ormai pochi mesi di qui al voto politico e sarebbe pure il caso che i vari piccoli leader satellitari tentassero – per lo meno tentassero – di mettersi tutti attorno ad un tavolo, accantonassero i rispettivi personalismi e lanciassero una convention costitutiva della propria offerta elettorale. Purtroppo, però, il campo centrista è abitato da tanti aspiranti Macron, quindi emulatori di un leader personale, uno che in Francia si inventò un partito sei mesi prima del voto e che sbaragliò tutte le vecchie nomenclature. Il vero nodo da sciogliere nella galassia centrista è dunque se la leadership personale sia un ingrediente ineludibile per la credibilità della proposta politica, ovvero se un’alleanza tra più leader può essere altrettanto efficace. Nel primo caso il passaggio elettorale sarà arduo per i nostri centristi. Difficile che si riconoscano in una leadership personale, anche per loro tuttavia molto dipenderà dalla legge elettorale.

4. Nel panorama nazionale intanto emerge, sempre più alta, la figura di un gigante politico, snobbato fino a poco tempo fa dai politicanti di tutte le sfumature come un tecnico senza expertise parlamentare, un parvenu della politica senza futuro, da utilizzare per fargli prendere le ineludibili misure impopolari richieste dall’emergenza e rispedire poi tra i tecnici. Mario Draghi, al contrario, si sta dimostrando ogni giorno di più uno straordinario uomo politico a tutto tondo. Ma pensateci, non ha un partito alle spalle, dirige un governo di esponenti dei partiti che un giorno gli baciano le pile per i tanti problemi che sta affrontando e risolvendo, e l’altro scalciano contro di lui e si scalciano tra loro allo scopo di evidenziare ai rispettivi elettorati la propria identità per la quale varrebbe la pena di rivoltarli. Con l’eccezione, è giusto dirlo, del Pd e di FI, che ne sostengono il lavoro senza ambiguità. E lui sta lì, quiet light, impassibile. Le mezze calzette dei partiti avrebbero un solo modo per esorcizzarlo: lusingarlo e spingerlo a presentarsi al voto come candidato premier, poi ci penserebbero loro a farlo fuori. In questo sono bravissimi, Mario Monti docet.