E’ caduto in questi giorni scorsi di festività l’anniversario della morte dell’Ultimo Re Borbone di Napoli: Francesco II delle due Sicilie, deceduto il 27 Dicembre del 1894 nel piccolo paese trentino di Arco, sotto le mentite spoglie dell’ignoto sig. Fabiani. Francesco II di Borbone è certamente più noto come Franceschiello, ma legga il lettore il nomignolo affibbiatogli dal popolo napoletano senza alcuna carica di ironia, ma piuttosto con una robusta dose di affetto paterno verso quel re giovane e sfortunato. L’ultimo Re. Francesco era un pronipote del grandissimo Carlo, I di Napoli e III di Spagna, e figlio di Ferdinando II di Borbone, un padre ambizioso e capace di straordinaria forza fisica e morale, ma morto troppo presto. Egli fu un giovanissimo Re orfano, ricco di fede, ma purtroppo privo di virtù guerriere e diplomatiche, che lo esposero alle manovre espansionistiche delle potenze uscite vincitrici dai nuovi assetti geopolitici ridisegnati dopo la definitiva sconfitta di Napoleone Bonaparte, ma stravolti dai bombardamenti savoiardi sulla roccaforte di Gaeta. In quella roccaforte si era rifugiato Francesco II, insieme alla coraggiosa e giovane consorte Maria Sofia di Baviera e con parte delle truppe rimastegli fedeli.
Nel dicembre dell’anno scorso 2020 Francesco II è stato proclamato Beato da Papa Bergoglio. Mentre scriviamo non si è spenta ancora l’eco della dell’arrivo in libreria del bel libro del giornalista Gigi Di Fiore a lui dedicato. “L’ultimo re di Napoli. L’esilio di Francesco II di Borbone nell’Italia dei Savoia” che si è inserito in un panorama di revival dei libri dedicati alla Storia dei “vinti” del Risorgimento, noi Meridionali.
Furono ben trentatré gli anni vissuti in esilio da re Francesco, che continuò senza eccessi e con pacatezza a rivendicare il proprio ruolo di Sovrano spodestato, fino alla morte, “comportandosi più da Santo che da Re”, come Gennaro De Crescenzo, lo storico Presidente del Movimento Neoborbonico ha ben detto.
Un esilio il suo, in cui l’amarezza per la propria personale sorte, fu segnata ancora di più dalla sventura che travolse dopo la cosiddetta Unità d’Italia il “suo” popolo meridionale, da una parte vittima della fame e della disoccupazione, ma anche protagonista della propria storia di brigantaggio e di emigrazione, i cui esiti – infausti e fausti – hanno avuto un forte riverbero sulla storia moderna dell’Italia e non solo.
D’altra parte non a caso Matilde Serao, certamente la più grande donna giornalista che ha calcato le scene dei salotti letterari napoletani, utilizzò per lui le parole: “galantuomo e gentiluomo” sulle colonne del Mattino, in occasione della sua scomparsa.
Ci piace perciò chiudere questo articolo con il “pezzo” che prendiamo in prestito da Matilde Serao la quale, alla notizia della sua scomparsa, sulle colonne di prima pagina de “Il Mattino” di Napoli scrisse un suo breve e denso necrologio dal titolo “Il re di Napoli”, con queste parole: «Don Francesco di Borbone è morto, cristianamente, in un piccolo paese alpino, rendendo a Dio l’anima tribolata ma serena. Giammai principe sopportò le avversità della fortuna con la fermezza silenziosa e la dignità di Francesco secondo. Colui che era stato o era parso debole sul trono, travolto dal destino, dalla ineluttabile fatalità, colui che era stato schernito come un incosciente, mentre egli subiva una catastrofe creata da mille cause incoscienti, questo povero re, questo povero giovane che non era stato felice un anno, ha lasciato che tutti i dolori umani penetrassero in lui, senza respingerli, senza lamentarsi; ed ha preso la via dell’esilio e vi è restato trentaquattro anni, senza che mai nulla si potesse dire contro di lui. Detronizzato, impoverito, restato senza patria, egli ha piegato la sua testa sotto la bufera e la sua rassegnazione ha assunto un carattere di muto eroismo… Galantuomo come uomo e gentiluomo come principe, ecco il ritratto di Don Francesco di Borbone».