fbpx
Home Recensioni La guerra delle tasse secondo Vincenzo Visco

La guerra delle tasse secondo Vincenzo Visco

by Pietro Spirito
0 comment

 

Ancora una volta, la riforma fiscale, con la proposta di legge delega che il Governo Meloni ha presentato al Parlamento, torna a fare parte della discussione pubblica nel confronto politico italiano. Si occupa di questa storia il recente libro di Vincenzo Visco e Giovanna Faggionato, “La guerra delle tasse”, Laterza. Le strade per la costruzione del modello tributario nel nostro Paese sono state spesso tortuose, molto più di quanto si possa immaginare.

La Costituzione repubblicana, sotto impulso dei democristiani nell’Assemblea Costituente, stabilisce all’articolo 53 che “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Ma la Commissione per lo studio della riforma del sistema tributario, istituita nel 1947 proprio per giungere alla approvazione di un nuovo sistema fiscale, non portò risultati politici e giuridici concreti. Solo all’inizio degli anni Settanta del secolo passato si riuscì a mettere mano concretamente ad una architettura fiscale coerente con i criteri stabiliti dalla Costituzione.

Per tutta la prima fase della Repubblica, e per tutta la durata del boom economico, l’Italia è rimasta senza una fiscalità moderna degna di questo nome. Le entrate dello Stato erano basate su un sistema di imposizione cedolare: esisteva una cedola per ogni reddito.

Sino alla riforma fiscale del 1974 si confrontarono due approcci culturali, rappresentati rispettivamente da Cesare Cosciani e Bruno Visentini. Al centro della discussione c’erano le modalità per il passaggio verso l’imposizione fiscale progressiva sul reddito, che da Visentini era considerata inadeguata a garantire fonti coerenti per le necessità del bilancio dello Stato.

Secondo Cosciani solo con l’introduzione di un sistema di imposta personale sul reddito si sarebbe potuto determinare un processo di modernizzazione del sistema tributario. Nel 1962 venne istituita una seconda commissione per la riforma fiscale, ma passarono altri dodici anni prima che una legge venisse alla fine approvata, peraltro annacquando molto i contenuti del lavoro svolto dalla commissione stessa.

Per Cesare Cosciani l’imposta progressiva generale sul reddito doveva contenere nella base imponibile tutti i redditi di capitale, la riforma del catasto, un’imposta sulle società, una imposta proporzionale sul patrimonio, la riforma della imposizione indiretta. Sono tutti i temi che restano aperti ancora oggi.

Passò allora la tesi di escludere i redditi da capitale dall’Irpef, mentre furono applicate una serie di aliquote, ridotte e decise in modo arbitrario. Quando l’Irpef entrò in vigore gli scaglioni erano 32, ed altrettante le aliquote: la più bassa del 10% e la più elevata del 72%. Nel 1982 gli scaglioni vennero ridotti a 9, con l’aliquota più bassa al 15% e la più alta al 60%. Il processo di schiacciamento delle aliquote e delle percentuali di imposizioni è continuato, sino all’attuale assetto a quattro fasce, uno dei punti che il Governo intende modificare, passando a tre scaglioni, per tendere poi verso la flat tax.

Ma alla semplificazione degli scaglioni ha corrisposto con il tempo la proliferazione delle detrazioni e delle deduzioni fiscali. Si è costituita una selva oscura di sottrazioni rispetto all’imposta dovuta; si tratta di oltre 600 misure, di cui 171 relative all’Irpef, per una perdita di gettito potenziale di quasi 70 miliardi di euro, di cui circa 40 dalla sola Irpef. Si tratta di oltre 5 punti percentuali di Pil, rispetto a poco più di 2 del Regno Unito, 1 della Francia e mezzo punto della Germania.

L’Irpef oggi produce maggior gettito per le casse pubbliche con il 40% del totale delle entrate tributarie dello Stato, mentre l’Iva, che pure pesa per il 30%, è quella su cui si concentra la maggiore evasione fiscale. L’attuale imposta sui redditi delle società vale per lo Stato meno di un quinto dell’imposta sui redditi delle persone.

Intanto è maturata una trasformazione profonda nel ruolo pubblico che l’imposizione fiscale svolge nella società. Negli ultimi anni le tasse sono passate dall’essere un mezzo per assicurare nel modo più razionale ed equo le coperture dei servizi offerti dallo Stato a uno strumento di consenso elettorale. Meno tasse per tutti è iniziato come slogan di una parte per diventare piuttosto una coscienza collettiva, ed uno strumento di lotta politica condivisa.

La costruzione di un sistema fiscale corrisponde sempre ad un patto sociale. Con il tempo le democrazie liberali occidentali hanno deciso che le tasse dovevano essere pagate soprattutto dai lavoratori dipendenti, pur se nel corso degli ultimi decenni, in coincidenza con la globalizzazione in particolare, la quota dei redditi da lavoro sul totale, che negli anni Ottanta pesava ancora per il 65-70%, è scesa sotto il 50%.

Anche per questa ragione è cominciata una crisi fiscale degli Stati, perché il modello di funzionamento economico è cambiato radicalmente mentre la struttura dei sistemi fiscali è ancora basata sulla architettura del capitalismo industriale delle ciminiere che si fonda essenzialmente sulla tassazione del lavoro dipendente.

Le diseguaglianze si sono alimentate anche grazie alla rivoluzione fiscale dei decenni passati. Nella discussione sulla organizzazione dei sistemi fiscali, il neoliberismo ha reso celebri le affermazioni mai provate di Arthur Laffer: oltre un certo livello di tassazione ottimale, le entrate fiscali sarebbero andate riducendosi perché alle persone non sarebbe convenuto lavorare per pagare le tasse.

E’ cominciata così una rincorsa a tagliare le tasse dei redditi più elevati, secondo il teorema che questa leva avrebbe in effetti aumentato le entrate fiscali: è invece accaduto l’opposto, e si sono aperti i baratri nei bilanci pubblici. Studi più recenti, curati da Peter Diamond ed Emmanuel Saez, hanno dimostrato che per gli Stati Uniti l’aliquota ottimale per i redditi più alti sarebbe del 70%, insomma esattamente il contrario di quello che le tesi neoliberiste hanno sostenuto per decenni.

Le imposte piatte con pochi scaglioni – garantendo e aumentando la salvaguardia dei redditi bassi, assicurando gli sgravi ai ceti abbienti e penalizzando implicitamente il ceto medio – corrispondono al perseguimento di una particolare alleanza fiscale: quella tra ricchi e poveri, un’alleanza sostanzialmente populista rispetto a quella socialdemocratica tra poveri e ceto medio, che era stata prevalente sino agli anni Ottanta del secolo scorso.

L’appiattimento della progressività non corrisponde allo spirito costituzionale, mentre è certamente contrario al dettato della Costituzione il proposito di perseguire una tassazione piatta. Sarà questa una delle questioni attorno alle quali ruoterà la discussione dei prossimi due anni sula riforma fiscale proposta dal Governo.

Resta poi il macigno storico della evasione fiscale, di cui sappiamo quasi tutto: ammonta tra i 7 e gli 8 punti di Pil, poco meno del 20% del gettito fiscale e del 30% del gettito tributario. Confindustria ha calcolato che un dimezzamento dell’evasione attuale, a parità di pressione fiscale complessiva, determinerebbe un aumento del Pil di 3,1 punti percentuali, con oltre 335.000 nuovi posti di lavoro

Intanto è cambiato profondamente il mondo delle imprese, attraversato dai processi di globalizzazione e di concentrazione economica. Anche a seguito di una dislocazione multinazionale delle aziende, si è diffuso il sistema di profit shifting, vale a dire la ricerca della sede fiscale più conveniente per minimizzare il carico fiscale: questa pratica si traduce a livello mondiale in una elusione pari a 200-240 miliardi di dollari che, nel caso italiano, significano una sottrazione di risorse al fisco pari a 10-15 miliardi all’anno. Il percorso verso una global minimum tax, oggi fissata al 15% per accordi fissati in ambito del G7, costituisce certamente un avanzamento da questo punto di vista.