Dopo averci martellato per anni con la fine del lavoro, la new economy e il neoliberismo, oggi il liberal Federico Rampini – che in verità da un po’ aveva scoperto Pikketty e le diseguaglianze globali – appare molto preoccupato sul Corriere del 27 Dicembre. Di che cosa? Presto detto. La classe operaia negli USA – scrive – “è cresciuta con il ritorno della fabbrica e il suo estendersi a dismisura nel terziario e nei servizi alle persone.” E vota Trump.
In pratica da una parte c’è il ceto medio istruito, dall’altra i non laureati, operai e mansioni meno qualificate. Addirittura, afferma Rampini, abbiamo due terzi contro un terzo della forza lavoro. Con dentro anche gli immigrati latino-americani, avversi ai nuovi ingressi e alla ideologia progressista: woke, lgtbq+, quote agli svantaggiati, blake lives matter, me too. Insomma, torna il nuovo patriottismo comunitario difensivo e anti-cosmopolita, in una parola il trumpismo che minaccia di travolgere Biden.
Rampini però non approfondisce il perché di tutto questo. Salvo un punto di merito molto serio: la discesa dei salari per via dell’ampia quota di forza lavoro come esercito di riserva. Che spinge in basso le paghe in un mercato del lavoro molto fluido e precario come quello USA. Un argomento a suo tempo sollevato da Karl Marx a proposito dell’immigrazione irlandese in Inghilterra, che oltre a impoverire l’Irlanda peggiorava la famosa condizione della classe operaia britannica. Tema che la sinistra preferisce rimuovere perché ‘scorretto’ eppure vero ancora, specie per i lavori più poveri in Occidente, e meno per quelli più qualificati.
Negli USA poi dove il sistema pubblico pensionistico è miserabile e basato su fondi e assicurazioni private, il punto è decisivo, poiché i bassi contributi non integrano affatto un sistema di per sé non solidaristico come in Europa.
Ma, ciò detto, Rampini spiega anche il trumpismo operaio con un dato meramente culturale: il rifiuto di massa della ideologia radical tipica dei progressisti. Mentre a suo avviso i dem vanterebbero un ottimo bilancio economico che dovrebbe soddisfare anche i subalterni. E tuttavia le cose non stanno affatto così.
A guardar bene le cifre e la geografia economica USA, modesti risultano gli ultimi incrementi del salario medio, dell’ordine annuo di meno del 5 per cento a fronte di una inflazione a lungo ben al di sopra di quel 5. E poi poco più di 4 milioni di ‘posti nuovi’ ma con appena 223mila buste paga, ovvero posti a tempo indeterminato. Gli aumenti veri delle buste e nelle buste hanno riguardato soltanto le tre major dell’auto: Chrisler, General Motors e Stellantis, con forte conflittualità sindacale, ma non i milioni di car makers dell’indotto e senza rappresentanza sindacale! Senza considerare il peggioramento generale di infrastrutture, scuola e sanità.
Un vasto mondo oggetto di disinvestimento pubblico e privato, e con in più questione abitativa falcidiata da mutui alle stelle e non onorabili. In sintesi, si assiste negli USA a impoverimento del ceto medio dipendente e non, e a un peggioramento della condizione di vita del lavoro comandato e meno qualificato. Come pure ad una contesa distributiva sui programmi di spesa indirizzati alla integrazione sociale e alle politiche industriali più d’avanguardia: dall’automotive alla net economy, tipo Silicon Valley, all’industria militare, alla AI. Nel quadro di anni di inflazione modulata, e crescita con alti costi da import ed effetto boomerang energetico malgrado il grande boom del petrol export USA, con annessi e connessi speculativi.
Inevitabile in questo scenario la reazione populista, comunitaria e isolazionista. America first quindi, a cominciare dal salario, dal fisco e dai programmi di spesa. Già gravati da debito astronomico e sempre a rischio blocco.
Ebbene, l’America cresce con Biden, ma gli Americani che lavorano di più, peggio e senza servizi e garanzie, virano psicologicamente verso una cultura comunitaria delle protezioni e del protezionismo. Identitaria. Rovesciando insicurezza e disagio contro i valori progressisti delle élites meritocratiche e avveniristiche. Un gigantesco contro-movimento anti-cosmopolita e anti-espansivo anche sul piano geopolitico e militare. Non certo pacifista ma fatto di aggressività mercantilista e contrattuale giocata di volta in volta sullo scacchiere geopolitico.
Ed ecco spiegato il trumpismo diffuso, che giustamente allarma Rampini, ma del quale egli non spiega affatto le ragioni strutturali ed economiche, insite nel capitalismo USA attuale. Restando invece catafratto e ipnotizzato dalle sue sovrastrutture ideologiche, come avrebbe detto Karl Marx.