L’incipit.
«La città era bianca, adagiata sulle colline gialle d’estate, come un pigro animale sonnolento che non reagisce alle sollecitazioni, stordito a causa dello stesso sole che ha cercato a terra, in un riquadro di terra, per stendercisi sopra e dimenticare il mondo.
Agli abitanti della città, che occupava nella parte più alta una gibbosa sopraelevazione calcarea, colonizzata dall’antica rocca, il mondo circostante appariva come un inganno. Sembrava una promessa vuota, per lontananza e sentore di morte oltre le mura. Il caldo, la siccità spaccavano la pelle delle strade e le strade insicure, lastricate di cristiani ammazzati dai briganti, erano scandite da macabre pietre miliari: montagnole di sassi a segnare un trapasso recente, una carcassa di animale da soma – forse arrostito e squartato per dare da mangiare ai carovanieri – locande lerce lungo la strada, dove chi ci si fermava poteva morire avvelenato, derubato, amato a prezzi modici da donne accoglienti e malate di ognuno di quei mali che l’amore presunto, frequente e a pagamento, procura.
Le strade erano paludi, acquitrini d’inverno e distese acciottolate, di sudore e polvere, da giugno fino a ottobre.
In lontananza, verso le dorsali azzurrine dei monti, si poteva immaginare che le strie verdi, intervallate dai campi, potessero essere fresche boscaglie.
La linea orizzontale blu e brulicante del mare, dalla parte opposta, emanava verso l’entroterra un odore salmastro, un afrore di viaggi per mesi e mesi in acque alte, un sentore di lontananza da casa, un allungo che sapeva di addii, di tristezza, di esaltazione per l’avventura e per il viaggio, per il viaggio che salva dalla vita grama condotta a terra, e per l’avventura che schianta e occulta sotto un coperchio liquido. La coltre dell’acqua in ebollizione nei giorni di tempesta serrava ancora il ricordo, di navi e marinai, sedato dalla voracità del mare in moto omicida e perpetuo.
La città era bianca, abbagliante sotto la luce che cadeva a piombo.»