Esistono piccoli libri che sono miniere di riflessioni. Entra in questa categoria il volume del filosofo sudcoreano, trapiantato in Germania, Byung-Chul Han, “Infocrazia. Le nostre vite manipolate dalla rete”, Einaudi. Nella società della digitalizzazione si stanno determinando mutazioni culturali così profonde da generare un vero e proprio mutamento di fase.
Per Han il regime dell’informazione è quella forza di dominio nella quale i meccanismi della comunicazione determinano in maniera decisiva, attraverso algoritmi e intelligenza artificiale, i processi sociali economici e politici. Nel regime disciplinare, che si sta formando dentro l’infosfera digitale, gli esseri umani sono addestrati a diventare bestie da lavoro. Il soggetto sottomesso nel regime dell’informazione non è docile né obbediente. Piuttosto si crede libero, autentico e creativo: produce e performa se stesso.
L’affermazione della propria opinione, sempre possibile e sempre sollecitata, annulla la piazza della democrazia, che è confronto e ragionamento, per fare spazio alla piazza digitale, che è soliloquio alla ricerca di like. Torna in qualche modo la volontà generale di Rousseau, che non è l’espressione faticosa dell’interesse collettivo tradotta in sintesi delle istituzioni della politica, ma diventa piuttosto espressione delle volontà individuali che si manifestano fuori dalla discussione pubblica.
La tecnica informatica digitale rovescia la comunicazione in sorveglianza: quanti più dati generiamo, quanto più intensivamente comunichiamo, tanto più efficiente diventa la sorveglianza. Ci crediamo liberi, mentre la nostra vita è sottoposta ad una protocollazione totale finalizzata al controllo psicopolitico del comportamento.
La democrazia è una comunità di ascoltatori, che formano i propri convincimenti sulla base delle narrazioni che si confrontano. La comunicazione digitale, in quanto comunicazione senza comunità, annienta la politica dell’ascolto. Così, ascoltiamo solo noi stessi.
Questa è la fine dell’agire comunicativo. Nell’universo basato esclusivamente sui dati la democrazia lascia posto ad una infocrazia basata sui dati, che si cura di ottimizzare lo scambio di informazioni. La sfera del discorso pubblico è sostituita dalla analisi dei dati per mezzo dell’intelligenza artificiale, il che significa la fine della democrazia.
La crisi della verità appartiene alle distorsioni patologiche della società dell’informazione. Nasce nel momento in cui perdiamo la fede nella verità stessa. Nell’era delle fake news, della disinformazione e delle teorie del complotto, stiamo perdendo il contatto con la realtà e le verità fattuali.
Coloro che sono ciechi ai fatti e alla realtà rappresentano un pericolo maggiore per la verità rispetto ai bugiardi. Il filosofo americano Frankfurt parla dei bullshitter, che non si oppongono alla verità, ma sono piuttosto indifferenti alla verità. Scrive Harry Frankfurt: “Le stronzate sono inevitabili ogni volta che le circostanze obbligano qualcuno a parlare senza sapere di cosa si sta parlando … Questa discrepanza è comune alla vita pubblica in cui le persone sono spinte a parlare di materie nelle quali sono ignoranti … nella diffusa convinzione che in ogni democrazia ogni cittadino debba avere una opinione su tutto, o almeno su tutto ciò che attiene alla gestione della cosa pubblica”.
La diffusione della tuttologia, ed il bisogno estremo di esprimere comunque una opinione incompetente, distrugge la credibilità delle competenze, che restano una etichetta sbiadita da lasciare alla noia dei curricula. Uno vale uno è diventato il mantra della democrazia digitale.
Mentre pensiamo di essere liberi, oggi siamo intrappolati in una caverna digitale. I prigionieri della caverna platonica sono inebriati da immagini mitico-narrative. La caverna digitale, invece ci tiene intrappolati nelle informazioni. La luce della verità è completamente spenta. Il rumore delle informazioni offusca i contenuti dell’essere, La verità non fa rumore. Silenziosamente, scompare.
La crisi della democrazia apre strade differenti, con la improntitudine di concetti basati sulla negazione dell’essenza, come la democrazia illiberale di Viktor Orban.
Nello Stato totalitario, che è costruito sulla totale menzogna, dire la verità è un atto rivoluzionario.
Il coraggio della verità è il segno distintivo di chi cerca ancora la democrazia. Nella società dell’informazione post-fattuale, invece, il pathos della verità non porta assolutamente a nulla. Si perde con il rumore delle informazioni. La verità si disintegra in polvere di informazioni, spazzata via dal vento digitale. Nella agorà vuota dei social, ci agitiamo disperatamente simulando quello che stiamo negando: il confronto di idee che è il sale della democrazia e della libertà.