Potrebbe sembrare fuori luogo, in questo clima di incertezza e paura che sta consumando il nostro Paese, parlare delle ormai vicinissime elezioni del prossimo Presidente degli Stati Uniti d’America. La distanza che ci separa dalle schermaglie elettorali tra Donald Trump e Joe Biden appare siderale, presi come siamo dall’ansia per i contagi che impazziscono e il numero dei morti che aumenta inesorabile ogni giorno.
Ma forse proprio la consapevolezza della nostra condizione di piccolo stato alla mercé della pandemia e delle inevitabili ripercussioni economiche ed occupazionali, contro le quali anche l’Unione Europea ha dimostrato tutti i suoi limiti dal punto di vista dell’unità politica, deve ancora una volta farci ricordare che il nostro destino rimarrà legato a quello degli USA. Sia che scelgano di avere un ruolo attivo nel continente eurasiatico, sia che scelgano (ahinoi) di preoccuparsi di risolvere in primis i loro problemi di politica interna.
L’altra sera, mentre sul palco dell’università di Belmont nel Tennessee si svolgeva l’ultimo duello televisivo tra Trump e Biden, avevano già votato ben 47 milioni di americani. Più di un terzo dei votanti delle scorse elezioni, quando furono 128 milioni pari al 55% degli aventi diritto. I meccanismi elettorali statunitensi, tra collegi variabili, grandi elettori, voto per corrispondenza ed iscrizione alle liste elettorali, sono complicati e non consentono di capire se con quei 47 milioni di voti i giochi siano già fatti.
Però il dibattito qualche indicazione l’ha data. Anche grazie alle limitazioni imposte dalla commissione indipendente sulla correttezza dei dibattiti elettorali (microfoni chiusi per due minuti da una parte e dall’altra, applicarle anche in Italia non sarebbe una cattiva idea) ed alla mano sicura ed autorevole della giornalista, Kristen Welker della NBC, che ha evitato che il dibattito si trasformasse in un referendum pro o contro Trump.
I temi sui quali i candidati si sono dovuti misurare hanno riguardato il Covid, il razzismo, e la crisi economica che sembra affliggere anche i ricchissimi USA. Come molti osservatori hanno notato, sono emerse due Americhe, due visioni della vita e della politica mai così distanti e separate come oggi. Non sembrava che si stesse parlando dello stesso paese. Sarà forse per l’età dei contendenti (Trump 73 anni, Biden 76), ma il futuro è stato il grande assente del dibattito, anchilosato in una stanca difesa dal presente minaccioso. Nessuno dei due è stato infatti capace di indicare un’idea di tempo venturo, un qualsiasi progetto di avvenire.
Trump si è limitato ad agitare il suo ottimismo a prescindere, basato non si capisce bene su cosa. Biden ha mostrato ancora una volta il suo pragmatismo upper class, un po’ stantio ed avvilente. Con buona pace dei sostenitori della fine delle differenze, è emersa con grande nettezza la deflagrante alterità tra il pensiero conservatore, populista e popolare dell’America profonda e quello liberal democratico delle grandi metropoli multiculturali delle due coast. Una diversità culturale prima che politica, esasperata dall’avvento di Trump.
Sulla carta i sondaggi sembrano univoci: Joe Biden avrebbe un ampio margine di vantaggio. Ma dei sondaggi negli USA non si fida più nessuno dopo il clamoroso flop di Hillary Clinton alle scorse elezioni. Certamente peseranno i milioni di contagiati e il lutto per le tante migliaia di morti causati dalla pandemia.
Gli americani, forse per la prima volta nella loro storia, si sono sentiti attaccati dall’interno da un nemico subdolo e nefasto. Hanno perdonato i morti del Vietnam, dell’Afghanistan, dell’Iraq e di tutte le guerre che gli stati Uniti hanno fatto in giro per il mondo negli ultimi 50 anni. Sotto l’egida del motto “in God we trust” (dove il significato neanche tanto sottinteso è: e quindi agiamo per conto del Signore), hanno pianto con l’onore delle armi i loro caduti in ogni guerra, considerandoli un giusto prezzo da pagare per governare il mondo libero occidentale. Ma non è detto che questa volta perdoneranno chi non ha saputo difenderli dal virus.