Nel nostro precedente articolo Napoli assediata (https://www.genteeterritorio.it/napoli-assediata/) abbiamo proposto Napoli come chiave di lettura della contemporaneità. Ne abbiamo sottolineato l’aspetto violento e degradato che si identifica, nel brano Napoli assediata, in quella strada/non strada che è l’asse mediano. Voglio oggi proporvi un’altra faccia della nostra città, un altro frammento che ruotando e intersecandosi con il precedente ci aiuta a costruire un ideale caleidoscopio in cui le figure mutano, cambiano colore, ma non si ripetono e l‘immagine appare comunque simmetrica. Sto parlando della poesia a Napoli, in particolare quella di Viviani che seppe dare voce alla Napoli pezzente ma orgogliosa, povera ma indomita. I suoi testi teatrali come La festa di Montevergine sono tra le testimonianze più vere dello spirito popolare della Napoli della prima metà del ‘900. Fu fortemente ostacolato dal fascismo sia per la scelta linguistica del dialetto che il regime boicottava, sia per il suo mettere in scena una città di poveri diavoli, in continua difficoltà per mantenere la famiglia, assillati dalla fame e dalla miseria.
Voglio proporvi il testamento di Viviani, una delle ultime poesie in cui con orgoglio rivendica l’importanza di quanto ha realizzato, unico modo per guadagnarsi l’immortalità.
Si overo more ‘o cuorpo sulamente
e ll’anema rinasce ‘ncuorpo a n’ato,
i’ mo so’ n’ommo, e primma che so’ stato?
na pecora, nu ciuccio, nu serpente?
E doppo che sarraggio, na semmenta?
n’albero? quacche frutto prelibbato?
Va trova addò starraggio situato:
si a ssulo a ssulo o pure ‘mmiez’ ‘a ggente.
Ma i’ nun ‘e faccio sti raggiunamente:
i’ saccio che songh’io, ca so’ campato,
cu tutt’ ‘o buono e tutt’ ‘o mmalamente.
E pe’ chello che songo sto appaciato:
ca, doppo, pure si nun songo niente,
sarraggio sempe n’ommo ca so’ nato.
E’ un sonetto, struttura poetica fondamentale della nostra tradizione. Nelle due quartine immagina una improbabile reincarnazione, supponendo che l’anima non muoia. Ma se anche dopo la morte non saremo più niente continueremo a vivere nel ricordo degli altri, ad essere persone che comunque sono nate ed hanno vissuto.
Precisiamo che Viviani non era mai andato a scuola ed aveva studiato da autodidatta, aveva respirato tutta l’aria della città da quella malsana dei quartieri a quella polverosa dei palcoscenici dei teatri. Eppure, il testo sembra comunicare un’avvenuta pacificazione con se stesso e il mondo circostante, un raggiunto lirismo, una piena consapevolezza della propria arte.