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Il sol dell’avvenire. E’ tornato Nanni!

by Giulio Espero
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Il Moretti che il pubblico italiano, ma anche quello francese, ha tanto apprezzato a partire dal suo primo lungometraggio professionale (Ecce Bombo esce a Roma l’8 marzo 1978, grande successo di pubblico e critica al festival di Cannes, incassa circa due miliardi di lire) pare proprio sia tornato. Dal 20 aprile è uscito infatti nelle sale Il sol dell’avvenire, il nuovo film del cineasta romano che, a tre anni da Tre Piani tratto da un libro dello scrittore israeliano Eshckol Nevo, torna a raccontare se stesso. Torna parlando ancora a quella minoranza affezionata e fedele di spettatori morettiani che non lo ha mai abbandonato in tutti questi anni di carriera cinematografica. Qualche giornalista ha affermato che “Con il sol dell’avvenire è tornato il morettismo”. Condividiamo appieno!

In effetti il meccanismo narrativo collaudato nel corso degli anni da Moretti (e del resto già utilizzato con esiti importanti da Federico Fellini), viene qui felicemente riproposto: il film racconta la storia della gestazione di un film, dove i piani narrativi si intersecano e si influenzano a vicenda. Giovanni (o Nanni o Michele Apicella come gli altri alias che normalmente Moretti utilizza) è un regista di un certo spessore e di un discreto successo che sta girando un film su alcuni militanti comunisti romani durante la drammatica invasione russa del 56.

Silvio Orlando in particolare interpreta Ennio, un giornalista de L’Unità, animatore di una sezione del Pci al Quarticciolo, che ha una quasi storia d’amore con Vera, una sarta, attivista del medesimo circolo interpretata da Barbora Bobulova. Proprio nei giorni in cui i carri armati entrano in Ungheria, la sezione romana ospita il circo ungherese Budavari. I due protagonisti si trovano, come tutti i militanti del Pci, a dover prendere posizione riguardo ai fatti di Ungheria. Lo spettatore segue Giovanni e la sua troupe sul set, alle prese con i problemi quotidiani. Intanto, Giovanni sta pensando anche a un altro progetto cinematografico parallelo basato sulla storia d’amore tra due ragazzi, con colonna sonora di canzoni italiane anni ’60. Nel mentre si dipanano questi due piani narrativi, si interseca la vita privata del protagonista: sua moglie, interpretata da Margherita Buy, che è anche la sua produttrice, vuole lasciarlo da tempo e sta cercando il modo giusto per dirglielo, mentre sua figlia, Valentina Romani, intraprende una relazione sentimentale con un uomo molto più grande di lei. Tutto il suo solido mondo affettivo sembra crollare all’improvviso e Giovanni si sente perso e spaesato.

Questa, in sintesi, la trama del film, se può ancora usarsi questo termine riferito alla poetica cinematografica morettiana. Poetica che pare esplicitarsi in maniera efficace, sino a diventare un marchio di fabbrica perfettamente riconoscibile, nella rappresentazione feroce, ma al tempo stesso affettuosa del protagonista, che è contemporaneamente attore, autore e regista, e della generazione di appartenenza (quelli come lui). Generazione, è bene ricordarlo, che a partire dagli anni Settanta ha inanellato una serie di sconfitte politiche e culturali, oltreché umane e sentimentali, come poche altre nel corso della storia recente del mondo occidentale. Il sol dell’avvenire della famosa canzone partigiana diventa quasi un amaro sfottò, un redde rationem malinconico ma non rancoroso. Un grande avvenire dietro le spalle ha detto un sociologo importante.

La pellicola, che sarà presentata in concorso al prossimo festival di Cannes, è un vero e proprio compendio del Moretti pensiero, delle sue fissazioni, delle sue idiosincrasie, del suo rapporto difficile con gli attori, del suo attonito stupore di fronte ad alcune derive della contemporaneità e dei suoi giudizi severi, ma mai astiosi, prima di tutto verso se stesso, i propri affetti e le proprie relazioni, senza dimenticare la passione politica che ha sempre contraddistinto il regista.

Ne Il sol dell’avvenire c’è il Moretti che si ama incondizionatamente o si odia senza remore, tutto ricompreso com’è in un diuturno autocitarsi nelle sue rappresentazioni più iconiche: i plaid, i dolci, le scarpe, le peregrinazioni solitarie in una Roma sempre splendida e rassicurante, le incursioni nei film degli altri, le canzoni stonate, le goffe danze dionisiache, che tutte insieme diventano i topoi, le lettere maiuscole di un alfabeto stilistico ormai perfettamente riconoscibile (altro che i turning point acclamati dai produttori di Netflix in una memorabile scena del film). Il registro del film è sempre caustico e tagliente, seppur con notevoli intrusioni comiche e malinconiche che aiutano a rendere più sopportabili le sconfitte quotidiane del protagonista/regista (unitamente alle nostre).

Il cinema morettiano risulta autoreferenziale, snob, a volte insopportabilmente moralista e pedante, ma al tempo stesso irresistibilmente intelligente e comico. Il film ci è piaciuto parecchio. Nanni, Giovanni, Michele ovvero tutti gli alter ego del cineasta romano non hanno ancora abbandonato il loro pubblico affezionato che li segue ormai da più di trent’anni.

Ciao Nanni.