Il Consiglio comunale di Napoli ha approvato un provvedimento che impone l’obbligo del salario minimo a 9 euro per tutte le aziende che stipulano contratti o vincono appalti con l’amministrazione cittadina.
In prima battuta, sembra una misura che vada nella linea di introdurre una misura nel solco tracciato dalla proposta di salario minimo avanzata dalle opposizioni parlamentari nel corso dei mesi passati. Tuttavia, la declinazione in salsa napoletana di questa misura per cercare di superare la piaga del lavoro povero presenta diversi punti di debolezza sui quali sarebbe opportuno riflettere.
Innanzitutto, il provvedimento introduce un dualismo tra le imprese che lavorano per conto di una pubblica amministrazione e la restante platea delle aziende. In qualche modo si erge una barriera all’ingresso nel mercato delle forniture pubbliche
Inoltre, non è difficile immaginare che a pagare la bolletta ci questa misura sarà alla fine il bilancio del Comune di Napoli. I costi per i servizi appaltati e per i lavori aumenteranno in funzione del vincolo di pagare il salato minimo ai lavoratori. Insomma, questa versione partenopea del salario minimo sarà sostanzialmente a carico del bilancio comunale, in una condizione già molto difficile per le casse dell’amministrazione cittadina.
Il perimetro dell’ambito di applicazione e il ribaltamento molto probabile dei costi del lavoro in incremento sui conti dell’ente pubblico, sono fattori che rischiano di introdurre qualche elemento distorsivo nella applicazione del provvedimento appena approvato.
Beninteso, la questione del lavoro povero esiste, è una priorità per l’Italia, ed è necessario porvi mano con una decisa azione di politica economica. Ma, come insegna l’esperienza del reddito di cittadinanza, la qualità del dettato normativo assume una rilevanza fondamentale per evitare che poi le distorsioni in fase di attuazione possano, come è accaduto, spingere ad una decisione che butta il bambino con l’acqua sporca.