Si avvicinano i giorni della verità in questa lunga crisi ucraina. Il Risiko delle armi sembra in queste ore prevalere sui colloqui della diplomazia. Quel lungo tavolo bianco al quale Vladimir Putin ha accolto i suoi interlocutori europei nel corso delle passate settimane sembra ulteriormente allungarsi. Le distanze tra le parti sono accentuate dalle mire espansionistiche dell’Orso Russo.
Viviamo ancora oggi la coda lunga della dissoluzione della Unione Sovietica. Boris Eltsin ne decise traumaticamente la fine innalzando il vessillo della madre patria Russia: l’ideologia del nazionalismo fu uno dei collanti per instaurare quella “democratura” che ha condotto ai ventidue anni di governo ininterrotto di Vladimir Putin.
Ma gli ottant’anni dell’Unione Sovietica avevano rimescolato profondamente le carte sociali nelle regioni dell’Impero comunista. In molti casi si erano formate realtà territoriali nelle quali i russi erano andati a governare da colonizzatori e normalizzatori, essendo però minoranza, popoli con una storia tutt’affatto diversa. Ferite antiche bruciano ancora nel ricordo di un passato tragico della storia europea.
L’Ucraina era stata una stretta alleata del regime nazista, a partire dall’Operazione Barbarossa. Tra i più convinti Hiwis (gli “ausiliari” volontari) reclutati dai tedeschi nei territori occupati, prima per il servizio supplementare – autisti, cuochi, inservienti, porta munizioni, staffette – e poi come veri e propri alleati militari (parliamo di 2-3 mila individui), vi furono proprio gli ucraini (seguiti da tatari, calmucchi, bielorussi, georgiani).
Ora, successivamente alla dissoluzione della Unione Sovietica, questo passato si ripresenta secondo le coordinate della modernità. La Russia vuole tornare a giocare la carta dell’espansionismo, ma al tempo stesso teme l’estensione della sfera di influenza della NATO ai suoi confini. Caduto il Patto di Varsavia, le regole della geopolitica sono state riscritte senza tener conto della necessità di codificarle in modo consensuale.
Putin, con un consenso che si riduce sul fronte interno, esporta i suoi problemi fuori dai confini cercando di ricompattare l’egemonismo russo, che era stato ferito dalla dissoluzione della grande potenza sovietica. Le minoranze che sono rimaste nei territori degli Stati della ex-Unione Sovietica forniscono il miglior pretesto per sanare una ferita che è al tempo stesso politica ed economica. Terminata la lunga stagione delle privatizzazioni che hanno generato la classe degli oligarchi, ora la Russia di trovare a dover fare i conti sul suo futuro.
La leva militare è sempre una grande arma di distrazione di massa: costituisce un modo per compattare dietro la bandiera nazionale gli animi amareggiati di un popolo che ha creduto di indirizzare la storia del mondo. Certo, Putin cerca sempre di bilanciare le ambizioni con le possibilità. E in queste settimane sta percorrendo il sentiero che già gli è riuscito nel 2014, con l’annessione sostanziale della Crimea. La posta viene alzata al massimo della bellicosità, ma poi al tavolo delle trattative postbelliche l’obiettivo sarà probabilmente il governo del Donbass e di Lugansk.
Sul fronte opposto, quello occidentale, si susseguono, senza una chiara regia, i tentativi di far rientrare la vertenza con le sole leve della diplomazia. La minaccia di rappresaglia, in caso di aggressione militare russa, consiste nelle sanzioni. Onestamente, non pare un bilanciamento adeguato rispetto alla mossa che Putin sta mettendo in campo. Serve il coraggio della forza, che però non c’è. Su questa fragilità occidentale fida Putin, per continuare a tirare la molla della minaccia, sino a quando non la metterà concretamente in atto.
Dieci piccoli indiani si avvicendano al lungo tavolo bianco di Vladimir Putin. Uno dopo l’altro non trovano lo spiraglio concreto per riportare la questione entro il perimetro della diplomazia internazionale. Forse, la chiave di volta sta nel comprendere cosa vuole effettivamente la Cina di Xi-Jin-Ping. Finita la tregua olimpica, le democrazie occidentali dovrebbero allargare lo spettro dei colloqui e comprendere che, piaccia o non piaccia, governare il mondo oggi significa ascoltare anche l’opinione dei cinesi. A loro Putin, per svariate ragioni, non può dire di no.