Due anni dopo Supereroi, Paolo Genovese torna alla regia con l’adattamento cinematografico di un suo romanzo del 2018: Il primo giorno della mia vita, in questi giorni nelle sale italiane. Il film riguarda un tema scomodo: il suicidio. Argomento quanto mai scabroso ed antipatico in Italia, dove la morale cattolica lo ha sempre marchiato con l’onta del peccato.
Paolo Genovese, già autore di Perfetti sconosciuti, film di straordinario successo del 2016 e che vanta ben 24 remake in tutto il mondo (pare che quest’anno uscirà il venticinquesimo, prodotto in Danimarca), affronta la questione suicidio da un punto di vista certamente laico, ma comunque permeato di profonda empatia umana nei confronti di chi arriva a togliersi la vita. Non un atto di insubordinazione, come lo giudica la Chiesa cattolica, ma neanche l’estrema e più vera espressione del libero arbitrio dei razionalisti ad oltranza. L’approccio del film privilegia, in effetti, una visione intrisa di pietas per un’umanità dolente sopraffatta dalla solitudine. Anzi, dalle solitudini: emotiva, fisica, ma anche quella da abbandono, ed infine la solitudine quale scelta di auto emancipazione volontaria.
I quattro protagonisti della storia – Arianna, Napoleone, Emilia e Daniele – vengono fermati proprio sul limitare delle loro vite apparentemente desertificate. Chi su un ponte, chi sul cornicione di un palazzo, chi mentre si punta la pistola d’ordinanza in bocca, e infine chi, malato di diabete, si ingozza di dolci di fronte ad una webcam. Una magia che solo il cinema di un certo spessore non fa cadere nella boutade stucchevole: compare un angelo. Un traghettatore dagli abiti stazzonati e lo sguardo benevolo (Toni Servillo) che, tra un pezzo jazz ed un giro in auto su una vecchissima Volvo stationwagon, vuole regalare una seconda possibilità ai quattro protagonisti. Sette giorni in cui dovranno decidere se uccidersi davvero o tornare nell’istante che ha preceduto l’ultimo gesto e ripensarci. Se non è proprio un angelo custode, ci siamo quasi.
Arianna (Margherita Buy), è una poliziotta lasciata dal marito che non è mai riuscita a superare la morte della figlia adolescente. Napoleone (Valerio Mastandrea), è un guru motivazionale che soffre di depressione profonda e che ricorda un po’ il personaggio di Tom Cruise in Magnolia. Emilia (Sara Serraiocco), è una ginnasta di talento che in tutte le competizioni sportive importanti arriva sempre seconda e finisce dopo un incidente sulla sedia a rotelle. Infine c’è Daniele (Gabriele Cristini), adolescente sovrappeso che per compiacere i genitori è diventato una star dei social creando video in cui si ingozza di cibo. Un attimo esatto prima che pongano definitivamente alla propria esistenza, si presenta questo Caronte al contrario, che gli chiede sette giorni di tempo per poter cambiare la loro visione della propria vita. Un viaggio nel tempo e nello spazio, in cui i quattro protagonisti senza poter bere, mangiare o essere visti, saranno guidati dall’uomo misterioso a riprendersi le cose belle e importanti della propria esistenza.
I quattro dead man walking attraversano una Roma quasi irriconoscibile (il film è stato girato durante il lockdown), ritratta con pennellate di colori lividi e lunari che ben rispecchiano lo stato d’animo dei protagonisti, sospesi in una sorta di limbo, ove sono allo stesso tempo vivi e morti. Forse è proprio la capitale (Città eterna?) una protagonista in pectore della storia, cui fa da sfondo freddo e opaco, costantemente bagnata da una pioggia battente tipo Blade Runner.
Film di sentimenti forti e contrastanti, Il primo giorno della mia vita è una pellicola girata, dal punto di vista tecnico, con una padronanza di mezzi ed una maestria difficilmente riscontrabili nella media produzione cinematografica italiana. Forse qualche pecca la si riscontra nella sceneggiatura, soprattutto quando affronta il problema della bulimia giovanile con un approccio un tanto al chilo.
Non stiamo parlando di un capolavoro, per carità, o dell’ennesima trasfigurazione artistica dell’ultimo cineasta uzbeco impegnato di moda. Ma di un prodotto cinematografico di ottima qualità, che ha l’ambizione di parlare ad un pubblico vasto senza essere stucchevole e melenso o, peggio, superficiale e consolatorio. Un cinema popolare, nel senso alto del termine, che rifugge consapevolmente le raffinate analisi metatestuali di un certo cinema autoriale che si compiace della propria autoreferenzialità.
Nel film di Genovese non si giudica chi non ce la fa a vivere, né si vuole insegnare ai perdenti come si superano le difficoltà spesso insormontabili delle nostre esistenze. L’unico messaggio che possiamo cogliere, se proprio vogliamo trovarne uno, è nella profonda umanità dei personaggi: nessuno, ma proprio nessuno, si salva da solo.